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Sul fair share, tentativi di protezionismo da parte di Bruxelles?

La strada per uscire dall’impasse sulle infrastrutture tecnologiche passa da tre soluzioni strutturali: industriale, politica e istituzionale. Superare la frammentazione degli operatori europei, che rende insufficienti le economie di scala del settore; allocare lo spettro per le trasmissioni wireless sulla base di beauty contest; smettere di estorcere esorbitanti diritti di licenza che hanno azzoppato per anni i bilanci degli operatori. L’analisi di Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente di Strategy alla Sda Bocconi School of management

Internet è come la democrazia: il peggior sistema di gestione delle comunicazioni, una volta scartati tutti gli altri. Dichiarare di voler migliorarla con le armi del dirigismo fiscale otterrà solo effetti distorsivi. Pur comprendendo la difficile situazione degli operatori infrastrutturati europei di fronte alle dinamiche di mercato, non si può che giudicare la loro richiesta di applicare il cosiddetto fair share come un esempio da manuale di sindrome di Stoccolma.

È infatti paradossale che dopo essere stati tenuti prigionieri della politica, che ha imposto loro enormi vincoli burocratici per la posa di infrastrutture, assurde limitazioni alle emissioni radio e taglieggiamenti briganteschi sulle licenze per lo spettro, gli operatori di Tlc si rivolgano proprio a essa per mendicare un piatto di lenticchie fiscali a carico degli Over-the-top (Ott).

Imporre un fair share in Europa, regione in grave ritardo tecnologico rispetto agli Usa su moltissimi fronti di circa trent’anni, quando siamo già entrati in un nuovo ciclo di innovazione, con le tecnologie dell’intelligenza artificiale generativa e con le architetture di quantum computing è una pretesa infondata e un errore.

È infondata perché l’effettivo costo infrastrutturale marginale (cioè quello necessario per gestire l’aumento dei volumi) dovuto all’incremento di traffico va evidenziato e verificato oggettivamente: in base alle evidenze disponibili, non risulta che ad oggi costituisca una quota preponderante dei costi infrastrutturali.

È un errore poiché, per quanto riguarda gli utenti finali, che finirebbero con tutta probabilità per pagare il conto dell’operazione, la quality of service non è certamente solo questione di volumi, bensì di latenza (per streaming in alta definizione di eventi live, virtual reality, gaming, eccetera) e perdita di pacchetti (per applicazioni critiche come telemedicina, mobilità, logistica, sorveglianza).

Invece di redistribuire profitti privati per via fiscale, quindi, sarebbe opportuno “distribuire” infrastrutture sul territorio europeo, con moderne architetture di Edge caching. La strada per uscire dall’impasse passa semmai da tre soluzioni strutturali: industriale, politica e istituzionale.

La soluzione industriale strutturale è superare la frammentazione degli operatori europei, che rende insufficienti le economie di scala del settore. Finché si considera come prevalente il “ mercato rilevante” della geografia nazionale, quando ormai quasi tutti i fattori economici in gioco sono quantomeno regionali se non globali, non si esce dall’iperframmentazione dannosa e inefficiente.

Ma la politica locale preferisce tenersi i campioncini nazionali e poi piangere miseria rispetto agli “avvoltoi californiani” che arrubbano le uova d’oro agli anticamente nobili, seppur oggi decaduti, pennuti telefonici locali. La soluzione politica strutturale è allocare lo spettro per le trasmissioni wireless sulla base di beauty contest, valutando i reali piani di investimento e senza pretendere anticipi fiscali, invece di estorcere esorbitanti diritti di licenza che hanno azzoppato per anni i bilanci degli operatori.

Il “pizzo” ottenuto dai governi europei per le licenze di telefonia cellulare 3G, 4G e 5G è stato finora di quasi 180 miliardi di euro (secondo Analysis Mason, 2022), e ha avuto l’effetto diretto di sottrarre risorse agli investimenti infrastrutturali degli operatori. Sarebbe giusto il caso di restituirlo, in proporzione alla redditività netta effettivamente realizzata.

È alquanto singolare che, dopo aver taglieggiato per anni gli operatori con oneri burocratici impropri per l’accesso al territorio e prelievi fiscali anticipati del tutto scorrelati all’effettiva redditività, i politici ora versino lacrime di coccodrillo provando a farsi perdonare le proprie malefatte perpetrando un ulteriore abuso, salvo attribuirgli il gentile quanto mistificatorio nome di fair share.

Trattasi, nella migliore delle ipotesi, della continuazione del tipico protezionismo di Paesi tecnologicamente ritardatari, spacciato per opera di equità e giustizia. Non lo è. È solo la risposta sbagliata a un problema reale, che però non si risolve violando il principio della neutralità tecnologica.

La soluzione istituzionale, invece, è quella di creare un’unica authority europea per il settore, al posto della pletora di authority nazionali. Troppe autorità locali oggi non favoriscono la nascita di modelli di offerta di servizi adatti a far emergere forme contrattuali e prezzi coerenti con i livelli di servizio e la sottostante struttura di costi industriali. La politica europea delle telecomunicazioni cerca quindi nel fair share una soluzione sbagliata, poiché è essa stessa a costituire il problema.

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