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Chip e IA, ecco la nuova cortina di silicio tra Usa e Cina

Dopo circa un anno, il dipartimento del Commercio ha aggiornato le regole sulle esportazioni e restrizioni di chip e macchinari avanzati. L’obiettivo è bloccare l’accesso a Pechino a tecnologie per la civil-military fusion. È a rischio la sicurezza nazionale. Intanto i chipmakers americani…

In uno sviluppo davvero significativo e che avrà enormi conseguenze sul contesto tecnologico globale, come anticipato nella giornata di lunedì secondo le prime indiscrezioni raccolte l’amministrazione Biden ha deciso di imporre ancor più severe restrizioni sulle esportazioni di chip avanzati per l’intelligenza artificiale (IA).

La mossa, annunciata ieri dal Dipartimento del Commercio, rappresenta un aggiornamento importante sulle esistenti norme che andranno a limitare la capacità di aziende, come l’americana Nvidia, Amd e altre, di vendere il design o semiconduttori leading edge alla Cina.

Secondo il comunicato stampa del Bureau of Industry and Security (Bis), l’agenzia che presiede e monitora l’implementazione e l’applicazione delle restrizioni, il nuovo pacchetto oltre a bloccare l’export di chip avanzati e macchinari per la fabbricazione prevederà inoltre dispositivi che supportano le applicazioni per il supercomputing fino ad armi avanzate che utilizzano tecnologia americana destinate a paesi, inclusa la Repubblica Popolare Cinese, sotto embardo e ad aziende cinesi incluse nell’Entity List come Huawei, Smic e Zte. Ad esse e alle altre già presenti si aggiungeranno Moore Threads e Biren, start-up cinesi attive nel design di semiconduttori e fondate da ex-dipendenti di Nvidia.

“Le regole aggiornate aumenteranno l’efficacia dei nostri controlli e chiuderanno possibili strade per evadere le nostre restrizioni”, ha commentato Gina Raimondo, segretario al Commercio. “Questi controlli mantengono il nostro focus chiaro sulle applicazioni militare e si confrontano con le minacce poste alla nostra sicurezza nazionale dalla strategia di fusione tra forze civili e militari del governo cinese”.

IL CONTESTO DI SICUREZZA NAZIONALE

Come riscontrato con il nuovo microprocessore di Huawei e dalle reti di fonderie illegali del gigante delle telecomunicazioni cinese, la Cina aveva messo in piedi una vera e propria strategia di aggiramento delle restrizioni imposte dagli Stati Uniti, puntando su alcune falle nei dispositivi giuridici del Bis, approfittando dell’integrazione commerciale con le aziende coreane, e investendo massicciamente sull’ecosistema dei chip cinese.

L’obiettivo di una maggiore autonomia tecnologica è ormai un cardine del Partito Comunista e di Xi Jinping, per svincolare l’ascesa della Cina nei settori high-tech (dal 5G, settore che ha patito la perdita di competitività di Huawei in seguito alle sanzioni, allo sviluppo dell’Intelligenza artificiale). La mancanza di aziende capaci di operare nel segmento design – con l’eccezione di HiSilicon, divisione di Huawei sotto embargo tecnologico – e di fabbricare macchinari avanzati per l’incisione dei circuiti integrati tramite litografia ultravioletta (dominata da Asml) ha complicato in questi anni la capacità di Pechino di stare al passo con l’innovazione tecnologica nell’industria dei semiconduttori.

Tuttavia, i recenti passi avanti della Cina e la possibilità che le aziende cinesi, spinte dal contenimento tecnologico americano, fossero incentivate a raddoppiare gli sforzi ha portato l’amministrazione Usa a stringere ulteriormente i colli di bottiglia lungo la supply chain. Le nuove regole, infatti, andranno a chiudere le falle presenti nelle normative precedenti e che risalivano alla tornata di restrizioni dell’ottobre 2022.

Secondo un report del think tank americano Centre for Security and Emerging Technlogies (Cset) di giugno del 2022, su 97 chip per IA procurati da fornitori dell’esercito cinese in un periodo di diciotto mesi dal 2020, quasi tutti erano stati disegnati da Nvidia, Xilinx, Intel e Microsemi.

“Le capacità di intelligenza artificiale – facilitate dal supercomputing, basato su chip avanzati – presenta rischi di sicurezza nazionale dal momento che possono essere utilizzate per migliorare la velocità e l’accuratezza del decision-making, della pianificazione e logistica militare”, puntualizza il Bis. Dunque, la ratio per questa nuova tornata di restrizioni rimane la necessità di bloccare l’avanzamento militare della Cina che potrebbe dare un vantaggio significativo in alcuni teatri operativi dove Washington e Pechino potrebbero trovarsi coinvolti, tra cui il Mar Cinese Meridionale e Taiwan.

COSA PREVEDONO LE RESTRIZIONI…

Come presentato dal Bis, le nuove regole – un pacchetto di 141 pagine di norme che andranno a complementare quelle esistenti – sono tre e che saranno valide, e applicabili secondo l’Export Administration Regulations (Ear), a partire dal 16 novembre dopo un periodo di 60 giorni entro i quali sarà possibile presentare commenti da parte di tutti gli stakeholders del settore.

Mantenendo valide i requisiti sulle licenze per poter vendere in Cina secondo quanto previsto lo scorso anno dall’Advanced Computing Chips Rule (AC/S Ifr), sono  aggiunte due categorie: la prima aggiusta i parametri tecnici per stabilire se un microchip avanzato è soggetto a restrizione; la seconda, impone misure per affrontare il rischio (che si è concretizzato nel corso di questi mesi) di evadere i controlli includendo ulteriori 40 Paesi nel perimetro di giurisdizione dell’embargo americano.

Nel primo caso, dopo un confronto con i ceo dei principali produttori americani e secondo i più recenti avanzamenti tecnologici nell’industria dei chip, è prevista la restrizione dell’export di chip se la soglia di performance stabilita precedentemente, ovvero 4800 TOPs*bits (ovvero tera operations per secondo), viene superata o pareggiata e con l’aggiunta di una nuova “soglia di densità” per prevenire futuri aggiramenti. È prevista una notifica per l’export di certi semiconduttori con performance appena al di sopra delle soglie esistenti che potranno essere soggetti alle normative qualora le agenzie non ritenessero opportuno concedere una licenza. Il Bis ha previsto di escludere certe applicazioni dell’elettronica di consumo dai controlli, come per i chip di memoria utilizzati negli smartphone su cui si regge il business di molte aziende come Samsung Electronics, SK Hynix, Qualcomm e Broadcomm.

In secondo luogo, vengono prese una serie di misure nell’ottica di prevenire l’aggiramento delle restrizioni, in collaborazione con le aziende americane e straniere che operano nell’industria. Tra le quali: un requisito per le licenze mondiali per l’export di chip sottoposti al presidio di sicurezza del Bis, la collaborazione in un’ottica di due diligence tra fonderie per stabilire se i pattern dei chip (design) sono conformi alle restrizioni Usa, l’allargamento dei requisiti sulle licenze con una presunzione di diniego su tutte le nazioni sotto embargo, tra cui la Cina.

Infine, vengono aggiornati anche i controlli sull’esportazione di macchinari e strumentazioni per la fabbricazione dei chip (Semiconductor manufacturing equipment interim final rule – Sme Ifr), con ulteriori controlli su dispositivi come Euv, Duv (compresi modelli più vecchi che possono essere comunque utilizzati per fabbricare, a costi più elevati e con minor scalabilità, chip avanzati) e fotoresistori, assicurando che tecnologie Usa non coinfluiscano in Cina – e agli altri 21 Paesi sotto embargo tra cui Corea del Nord, Iran, Siria Cuba – pur evitando impatti non desiderati sulla filiera. Il Bis ha inoltre aggiunto ulteriori 13 entità cinesi, comprese le relative sussidiarie, attive nello sviluppo di chip avanzati che hanno dimostrato di non ottemperare agli interessi di politica estera e sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Verrà dunque richiesto alle fonderie (fabs) che intenderanno collaborare con queste aziende di ottenere una licenza specifica dal Bis prima di poter spedire i chip.

LE REAZIONI DELL’INDUSTRIA E NON SOLO…

Le nuove restrizioni sono state accolte a caldo con un mix di reazioni. La Semiconductor industry association (Sia), lobby americana che raccoglie e rappresenta la voce del 99% dell’industria dei chip americana, ha rilasciato un comunicato stampa conciso e breve che non fa trapelare ancora una vera e propria presa di posizione, a differenza di quanto esplicitato qualche mese or sono sui possibili impatti economici per i chipmakers statunitensi.

“Stiamo valutando l’impatto dei controllo sull’export sull’industria dei chip americana”, si legge nel comunicato. “Riconosciamo la necessità di proteggere la sicurezza nazionale e riteniamo che mantenere un’ecosistema dei semiconduttori in salute sia una componente essenziale nel raggiungere tale ogiettivo. Controlli unilaterali rischiano, nel complesso, di compromettere l’ecosistema senza ottemperare la sicurezza nazionale dal momento che incoraggiano i clienti a guardare altrove”.

In sostanza, la Sia denuncia sottilmente quello che alcuni analisti ritengono concreto: il rischio che la prevaricazione di interessi di sicurezza su quelli economici, soprattutto in un’industria complessa e globale, possano minacciare le basi stesse su cui attori come Nvidia, Apple, Qualcomm e Intel hanno costruito la loro leadership tecnologica, avendo puntato molto sulle vendite nel mercato cinese. Si tratta del classico dilemma: trading with the enemy.

I mercati già riportanto i primi segnali. Le quotazioni di Nvidia, Broadcomm, Marvell, Amd e Intel hanno chiuso al ribasso nelle contrattazioni martedì al momento dell’annuncio. Limitare le vendite di semiconduttori alla Cina, che conta per circa un terzo del mercato globale, sicuramente mette queste aziende in una posizione molto complessa, con il rischio di ridurne la competitività. Una delle ragioni chiave è che, come in molte alte industrie ad alto contenuto tecnologico, l’industria dei chip presenta costi fissi molto alti rispetti ai costi marginali. In altre parole, disegnare e produrre il primo chip (come si impone ancora di fare, per esempio, Intel seguendo il suo business model integrato rispetto ad una pure-play foundry come Tsmc) costa miliardi di dollari mentre produrli in scala molto meno. In assenza di un mercato alternativo, potrebbe dunque innestarsi una spirale negativa di perdita di entrate, quote di mercato e dunque risorse da reinvestire in R&D.

Per esempio, secondo uno studio i controlli sull’export varati lo scorso ottobre hanno spinto Huawei a produrre un microprocessore da 7 nanometri, invece di affidarsi al mercato (design americano, fabbricazione taiwanese), e che potrebbero comportare una perdita di vendite per Qualcomm da circa $11.8 miliardi nel solo 2024. La stessa Nvidia, azienda leader nel design di chip logici per l’IA e grande cliente di Tsmc, ha dichiarato che le restrizioni saranno applicabili ai chip dell’azinda come l’A100, A800, H100, H800, L40, L40S e l’RTX 4090. Un impatto trascurabile nel breve termine, ma sicuramente significativo nel medio-lungo periodo considerando l’esposizione dell’azienda: circa il 25% delle sue entrate per i chip utilizzati nei datacenter (GPUs) sono dal mercato cinese. Inoltre, secondo le nuove restrizioni Nvidia, come altri chipmakers americani, non potranno vendere questa tipologia di chip ad aziende cinesi qualora siano in grado di operare a velocità superiori ai 300 teraflops (pari a circa 300 trillioni di operazioni al secondo), tra i 150 e 300 se la “densità di performance” (la nuova soglia introdotta) eccede i 370 gigafloops (miliardi di calcoli) per millimetro quadro, mentre chip nella zona grigia saranno esclusi dalle restrizioni solo su licenza.

Anche Asml, azienda olandese leader nella fornitura di macchinari avanzati Euv, ha rilasciato un comunicato stampa dichiarando che “data la complessità e lunghezza delle normative” sarà necessaria “un’analisi dettagliata per stimarne le potenziali implicazioni” per il suo business. Secondo una prima analisi, appare chiaro che le nuove restrizioni saranno applicabili ad un “numero limitato di fonderie in Cina” per quanto concerne l’equipaggiamento avanzato, e che non avrann “un impatto materiale sulle finanze aziendali per il 2023 e nello scenario di lungo periodo al 2025 e 2030”.

Secondo le precedenti restrizioni, concordate tra Usa, Olanda e Giappone, Asml avrebbe dovuto stoppare la vendita di macchinari avanzati in Cina a partire dal 2024. Intanto l’azienda ha riportato un utile di $2 miliardi nel terzo quadrimestre del 2023. Altre aziende Sme americane, come Applied Materials, Lam Research e KLA Corporation non hanno ancora commentato ufficialmente le restrizioni.

Da capire quale sarà la reazione della Cina. Un portavoce del governo ha affermato, commentando le misure su China Daily, che gli Usa “hanno costantemente esagerato con il concetto di sicurezza nazionale, abusato delle misure di controllo delle esportazioni e hanno fatto ricorso alla prepotenza unilaterale, di cui la Cina è fortemente insoddisfatta e a cui si oppone fermamente”.

In ballo, vi sono le restrizioni potenziali di gallio e germanio, due materiali semiconduttori la cui produzione, dominata dalla Rpc, è molto importante per la fabbricazione di chip maturi e di ampio utilizzo in settori industriali come l’automotive, la robotica e alcune applicazioni militari. È evidente che, qualora le restrizioni venissero percepite e si concretizzassero come un ulteriore ostacolo per la Cina di aggiungere la frontiera tecnologica nello sviluppo di modelli di IA, potrebbe avere implicazioni più ampie per l’economia cinese e così gettare le basi per ulteriori misure di ritorsione.

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