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Via della Seta? Infantile entrare, saggio uscirne. La versione di Forchielli

Intervista all’economista e imprenditore esperto di Oriente. Il progetto cinese ha prodotto tanti debiti, che hanno messo nei guai molti Paesi che vi hanno preso parte e comunque all’Italia non ha portato nessun vero beneficio. Troppo presto per capire se il Blue dot network è la giusta risposta occidentale alla Bri. Il conflitto in Medio Oriente spingerà Israele a non fornire più tecnologia a Pechino ma rafforzerà il Global South

A guardare le foto, Xi Jinping pareva persino sorridente all’apertura della cerimonia di apertura del terzo Forum sulla Via della Seta per la cooperazione internazionale a Pechino. Sono trascorsi esattamente dieci anni dal lancio dell’iniziativa, al secolo Belt and road initiative, con cui il partito comunista ha veicolato per la prima volta le sue ambizioni globali. Giganteschi investimenti con l’obiettivo, dichiarato, di portare il meglio della tecnologia e delle infrastrutture del Dragone in quei Paesi dall’economia ancora troppo claudicante. Nei fatti, come raccontato più volte da Formiche.net, le cose sono andate un po’ diversamente, con interi Stati finiti ostaggio dei debiti maturati proprio con la Cina.

Ad oggi, molti Paesi hanno firmato accordi per investimenti collegati al progetto. Tra questi diversi tra Medio Oriente e Africa, come Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Turchia, mentre l’Italia è ormai prossima a uscire dal memorandum di intesa, dopo esservi entrata con il governo di Giuseppe Conte, su impulso dell’esecutivo di Giorgia Meloni (alle celebrazioni sarà presente solo l’ambasciatore italiano in Cina e nessun membro del governo). Nel suo discorso, nel giorno in cui il Pil del Dragone nel terzo trimestre ha superato le attese degli analisti (+4,9%), il leader cinese ha ribadito l’intenzione di continuare a sostenere le economie più fragili, rimarcando la missione storica della Bri. Ma la domanda di fondo rimane. Che cosa rimane della Via della Seta dieci anni dopo? E, soprattutto, ne valeva la pena? Alberto Forchielli, economista e grande esperto di Oriente, ha pochi dubbi.

Via della Seta, dieci anni dopo. Proviamo a fare un bilancio.

Sicuramente è stato un significativo investimento, si stima che siano stati spesi almeno 3 mila miliardi di dollari. Ma se l’esborso e gli investimenti sono stati colossali, la resa è decisamente più discutibile.

Perché?

Molti Paesi sono in difficoltà nel rientro dei debiti, i prestiti legati alla Via della Seta sono molto, troppo onerosi e sono stati concessi senza analizzare la situazione finanziaria e macroeconomica dei destinatari dei finanziamenti. E così i nodi sono arrivati al pettine. Luci e ombre, insomma.

Ai cittadini cinesi, pare, non sia mai andata troppo a genio la Belt&Road…

Diciamo che la Via della Seta ha suscitato delle perplessità, quando non delle vere e proprie proteste in patria. L’opinione pubblica si è chiesta il senso di spendere tanti soldi in giro per il mondo quando ce ne era un gran bisogno internamente. In un certo senso la Bri è stata forse più subita che altro, mai davvero accettata.

Ma allora, alla luce di tutto questo, è giusto o quanto meno sensato celebrare dieci anni di Via della Seta?

Sì, perché la Cina il suo viaggio per diventare leader del Global South lo ha fatto, raggiungendo degli obiettivi. Quindi, da un punto di vista cinese, la celebrazione ci può stare.

Secondo lei ci sono dei Paesi che si sono pentiti di essere entrati nella Bri?

Certamente sì, penso allo Sri Lanka, lo Zambia, le Maldive…

L’Italia sta per abbandonare il progetto cinese, dopo esservi entrato quattro anni fa. Decisione saggia?

Sono d’accordo perché non ci ha portato nessun beneficio, non abbiamo ottenuto nulla, niente investimenti, niente bilancia dei pagamenti in positivo, niente di niente. Entrare nella Via della Seta fu una scelta infantile, che ci ha fatto fare una brutta figura in giro per il mondo.

Il Blue Dot Network è davvero la risposta occidentale alla Belt&Road?

Mi pare presto per dirlo, stiamo a vedere. Non ci sono ancora dei meccanismi rodati, collaudati, bisogna vedere quanto questa iniziativa regge dinnanzi ai problemi ambientali e soprattutto regge la velocità della Cina.

Che cosa vuole dire?

Voglio dire che non sono assolutamente convinto del fatto che l’Occidente riesca a realizzare delle opere nei Paesi in via di sviluppo, alla stessa velocità della Cina. Faccio un esempio pratico, le banche cinesi hanno tirato fuori nel giro di pochi anni un trilione di dollari, la Banca mondiale ha un bilancio di 400 miliardi. Mi pare ci sia una certa differenza in termini di potenza di fuoco.

Le faccio notare come gli investimenti della Cina siano stati fatti a debito…

Anche la Banca mondiale presta soldi a debito. La Cina in dieci anni, a livello di investimento, ha fatto più della Banca mondiale in dieci anni.

I dati sul Pil cinese nel terzo trimestre sono superiori alle attese. Allora la Cina si sta riprendendo? O è solo un fuoco di paglia?

Questi dati ci dicono che non possiamo aspettarci troppi stimoli sull’economia del Paese, la Cina non crescerà mai come prima, ma gli obiettivi del governo verranno quasi certamente raggiunti. Pechino ormai vive una nuova normalità, fatta di crescita contenuta e risanamento, per quanto possibile, del debito.

Parliamo di Medio Oriente. Il conflitto scoppiato dieci giorni fa, è un problema per Pechino?

In linea di massima no, perché riavvicina la Cina ai Paesi del Global South, visto che sono filo-palestinesi, come Pechino. Questo ricompatta un fronte che si stava sfaldando con la guerra in Ucraina. Questo non giova al fronte occidentale, che è antagonista al Global South. Va detta però un’altra cosa: Israele è stata negli anni addietro un grande fornitore di tecnologia per la Cina. Ora questa presa di posizione del Dragone fermerà questo flusso, perché gli israeliani non vorranno più fornire tecnologia a chi sostiene la causa palestinese e Hamas.

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