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I poteri dello Stato nell’Italia del populismo. L’opinione di Tivelli

Luigi Tivelli spiega perché a suo parere il caso della giudice di Catania rappresenta un conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato nel Paese ancora intriso di populismo

Onestamente non so se quanto al tormentone in atto sulla giudice di Catania colpita da tremendi strali politico-mediatici specie, ma non solo, da Salvini si possa dire oportet ut scandala eveniant. Certamente Montesquieu, il primo artefice della teoria della divisione tra i poteri, si sta un po’ rivoltando nella tomba. Si sono scritte su tale questione-tornentone quintalate di piombo. Non so però se qualcuno ha osservato che sostanzialmente siamo di fronte ad una sorta di conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato alla moda di certa politica populista italiana.

È noto che siamo davanti ad una classe politica (e non solo a quella) praticamente senza memoria storica, ma in seno alla classe giornalistica, che se si sa scegliere tra le diverse firme e i diversi giornali forse è migliore di quella politica, è tornato forse un po’ di senso della memoria storica.

C’è chi è andato un po’ a pesca sulle migliori pagine di Calamandrei, grande Costituente, grande avvocato di sana cultura liberal-democratica, magari risfogliando “l’elogio dei giudici scritto da un avvocato”. Chi è andato a pescare il discorso di un grande Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, tenuto nell’84 ai giovani vincitori del concorso in magistratura. Si è però anche agitato nello shaker il solito cocktail propinato all’opinione pubblica, fatto di ingredienti miscelati in salsa populista, non aiutando certo lettori e cittadini a comprendere e distinguere.

Non ho alcuna voglia di aggiungermi a quella miscela tra cronaca e analisi, spesso malamente mescolata, propinata ad un’opinione pubblica, un po’ spaccata in due, grazie alla tremenda divisività, all’orientamento a cercare sempre le ragioni che dividono (contrariamente a quanto stiamo cercando di fare con l’Academy Spadolini di cultura e politica), che caratterizza la politica italiana, spesso così amplificata da non pochi giornali. Posso solo annotare a questo proposito che probabilmente il giudice, oltre che essere imparziale, evidentemente è meglio che anche appaia imparziale. Non per questo però una giudice che si è attenuta al perimetro classico della sentenza, quello delle norme vigenti e dei principi costituzionali, può essere messa alla gogna o alla berlina. Ciò che qui interessa però è andare alle radici della questione.

C’è un nodo molto aggrovigliato, mai risolto che dura da decenni nel rapporto fra politica e magistratura. Non mi riferisco per un verso a quanto avvenuto ad esempio con Mani Pulite, né a quel sano e giusto garantismo risuonato in questo giorni in cui si è concluso il congresso dell’Unione delle Camere Penali. Mi riferisco alla questione strutturale del rapporto fra politica e magistratura, incarnata nel modo peggiore possibile dalla configurazione e dalle norme, dai regolamenti interni vigenti che disciplinano il Csm. Si tratta di una strana e pericolosa matassa normativa che sembra fatta apposta per favorire forme più o meno latenti di politicizzazione della magistratura. Per favorire la anomala vitalità delle correnti in seno alla magistratura, per esporre di conseguenza anche i magistrati migliori al rischio di essere tacciati di forme di politicizzazione.

Sembrava ci provasse il ministro Cartabia durante il governo Draghi, ma sostanzialmente nulla è stato mutato dell’assetto, delle funzioni, della disciplina del Csm. Una sorta di brodo di coltura delle peggiori tendenze e deviazioni di certa magistratura, specie inquirente. Una sorta di giustificazione permanente, visto dall’altro lato, per leader o esponenti politici che vogliano attaccare i giudici.

Non parliamo poi specificamente del sistema di preposizione agli incarichi da parte del Csm. Sembrava che il problema grosso si ponesse per ciò che riguarda le procure e la magistratura inquirente, ma in questo caso c’è l’assalto ad un’esponente della magistratura giudicante. L’ottimo ministro Nordio, già grande magistrato, mi sembra che abbia passato i primi mesi del suo incarico con uno spirito da ministro-editorialista. D’altronde anche come grande editorialista era cresciuto all’attenzione dell’opinione pubblica e delle forze politiche. Spetta a lui non solo, come mi sembra abbia iniziato a fare, proporre riforme serie, ma mettere un po’ di ordine anche nel tormentone in atto. Nel governo c’è anche un altro ottimo magistrato di Cassazione, Alfredo Mantovano, già politicamente schierato con la destra, ma sempre attento, rigoroso ed imparziale nell’esercizio delle funzioni di magistrato, che dispone di tutte le chiavi, dal suo delicato e cruciale incarico, per contribuire a mettere un po’ di ordine nella questione. Speriamo che ciò avvenga, perché questa sorta di strano conflitto di attribuzioni fra potere dello Stato messo nella salsa del modo attuale di far politica in Italia, mentre soffia per non poco il vento populista, apre una questione molto delicata per ciò che concerne la tripartizione e la separazione dei poteri. E purtroppo anche per ciò che concerne la fiducia dei cittadini per un verso nei confronti della giustizia, per altro verso nei confronti di certi leader politici ed esponenti di governo che agitano clave un po’ troppe nodose e pericolose.



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