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Riad-Gerusalemme. La pausa per la normalizzazione è solo tattica

L’Arabia Saudita ha congelato momentaneamente i negoziati con Israele. L’attacco di Hamas e la reazione contro Gaza sono fattori dirompenti, mentre l’intento della prima potenza del mondo arabo è la formalizzazione di uno status quo assodato passo dopo passo

Nel suo editoriale settimanale, Fareed Zakaria, top star dei commentatori di politica internazionale americana, scrive che la migliore risposta all’attacco di Hamas sarebbe mantenere vivo il percorso di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita. Ieri, a distanza di meno di una settimana dall’attacco terroristico palestinese e dall’inizio della reazione israeliana — e mentre l’operazione terrestre sta per partire e iniziano a circolare video propagandistici deleteri da entrambi i fronti — Riad ha annunciato di sospendere il processo negoziale avviato con il precedente governo Netanyahu. Processo su cui gli Stati Uniti avevano investito molto, se non tutto, il futuro del loro impegno nella regione, visto anche che seguiva i cosiddetti Accordi di Abramo — quelli con cui Israele aveva normalizzato le relazioni con altri Paesi arabi, tra cui gli Emirati.

“Hamas spera anche nel fallimento di un eventuale accordo con l’Arabia Saudita”, scrive Zakaria per spiegare come i due dossier — le normalizzazione e il sanguinario attacco con la furiosa risposta — sono collegati. “Quanto più brutale sarà la risposta di Israele, tanto più probabile sarà il fallimento dell’accordo. L’obiettivo di Israele dovrebbe essere quello di rispondere a Hamas e affrontare la questione palestinese in modo da consentire la ripresa dei negoziati sulla normalizzazione saudita. Questo è il premio strategico. L’instaurazione di relazioni normali tra Israele e l’Arabia Saudita sarebbe la più grave battuta d’arresto per Hamas, Hezbollah e l’Iran”.

I funzionari sauditi hanno comunicato la posizione di Riad agli Stati Uniti molto rapidamente, secondo quanto esce adesso sui media internazionali. Non c’è un annuncio pubblico per questioni di opportunità. Tuttavia c’è una precisazione necessaria: la mossa viene descritta come una pausa (tattica) e non come la fine della diplomazia (che invece sarebbe una scelta strategica). In un contesto diverso, intervistato appena un mese fa da Fox News, l’erede al trono saudita Mohammed bin Salman rivelava che “ogni giorno siamo più vicini” a un accordo con Israele. Ma nella reazione all’attacco palestinese, Riad ha usato termini simbolici come “forze occupanti” per descrivere Israele, che non ha mai menzionato nel comunicato successivo alla sua storica, prima telefonata con il presidente iraniano Ebrahim Raisi.

I due leader si sono sentiti nei giorni scorsi, hanno commentato la situazione — dove l’Iran è coinvolto come fornitore materiale e ideologico dei gruppi che odiano Israele, come Hamas — e hanno cercato di dimostrare una realtà schiacciante: la questione palestinese è ancora in grado di unire il mondo arabo. Chiaro, come ricordava Giorgio Cafiero (GulfStateAn/Georgetown), lo fanno in modo strumentale, perché i sauditi innanzitutto vogliono scongiurare una guerra regionale che coinvolga l’Iran e le sue milizie proxy, come Hezbollah. E l’appoggio ai “fratelli palestinesi” (altra definizione simbolica che torna forte in questo momento) è un collante maggiore delle normalizzazioni con Israele. Almeno a livello delle collettività, che prendono distacco dall’attacco terroristico (anche se ci sono posizioni con varie sfumature), ma che altrettanto condannano ruolo e reazione israeliani.

I Paesi della regione come l’Arabia Saudita hanno terribilmente a cuore la necessità di mantenere al massimo il livello di comprensione dei sentimenti collettivi. Ne va del patto sociale, all’interno del quale ai cittadini vengono già chieste rinunce e contrazioni della propria libertà. L’attenzione sugli accordi con Israele da sempre sminuisce quella riguardo ai destini palestinesi, e se questo è una forzatura bypassabile con narrazione e pragmatismo in fase di (relativa) pace, non lo è in un momento di emergenza e guerra come questa. Non a caso, ora i sauditi dicono che “concessioni israeliane per i palestinesi saranno una priorità maggiore quando i negoziati riprenderanno”.

Ricorsi deterministici sono poco utili, la situazione attuale è notevolmente diversa dal conflitto del 1973, in quanto Israele non è più isolato a livello regionale e ha stabilito relazioni con diversi Paesi arabi. Soprattutto, gli Stati arabi sono tutti lanciati verso un’emancipazione internazionale attraverso complessi piani — chiamati “Vision” — che mettono insieme la transizione economica per affrancarsi dalle rese degli idrocarburi con la costruzione di un nuovo ecosistema socio-politico. Per sostenere il corso di questa rivoluzione, innanzitutto culturale, ciò che serve è la stabilità di quel rinnovato patto sociale.

In un’approfondita analisi pubblicata sul sito dell’Arab Center di Washington, Kristian Coates Ulrihcsen spiega che la narrazione saudita inquadra Hamas come parte di un campo estremista da cui si distacca totalmente, cogliendo però l’opportunità per rimarcare la necessità di una soluzione politica, soprattutto nel momento in cui Israele risponde all’attacco. Tuttavia, per Ulrichsen, Baker Institute Fellow alla Rice University, il conflitto a Gaza potrebbe infiammare l’opinione pubblica, poiché molti nella regione non sono convinti dei benefici della normalizzazione.

A giugno, l’Arab Opinion Index ha rivelato un forte sostegno alla causa palestinese tra gli arabi e gli sviluppi a Gaza potrebbero rendere più difficile per Paesi come gli Emirati Arabi Uniti impegnarsi con Israele. A maggior ragione per nuovi e pesanti (dal punto di vista simbolico) attori, come Riad. Le dichiarazioni saudite suggeriscono un processo di normalizzazione graduale, sottolineando che quando si verificherà, sarà visto come una formalizzazione dello status quo piuttosto che come un cambiamento dirompente. Ossia, Riad vuole rendere “normale la normalizzazione”: e la guerra a Gaza è un processo sconvolgente, che altera i piani.

In definitiva, l’attacco di Hamas del 7 ottobre potrebbe non influire significativamente e profondamente su questo processo, in quanto consente alla leadership saudita di controllare ancora i tempi e i modi della normalizzazione. Potrebbe passare ancora del tempo prima che bin Salman decida di giocare la carta finale, e nel frattempo una diminuzione delle speculazioni sull’accordo incentrate sugli Stati Uniti potrebbe essere utile. Tuttavia, anche in questa fase di pausa formale (e tattica) dei negoziati, è possibile che segmenti laterali – come quelli legati alle connettività – continuino a procedere. Così come non sarebbe stupefacente se i vari sherpa diplomatici continuano i colloqui in maniera più discreta. Strategicamente la partita è ancora ultra rilevante.

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