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La riforma istituzionale e la fuga dei cittadini dalle istituzioni. Scrive Tivelli

Il rischio della riforma istituzionale è quello di trovarsi con un premier eletto dal 60% dei voti, ma con un corpo elettorale sempre più striminzito e magari inferiore alla metà dei cittadini elettori. La riforma ipotizzata non mi pare affronti il nodo sostanziale della tendenziale fuga dei cittadini dalle istituzioni e quindi dell’esigenza di forme adeguate di recupero

Anche a prescindere dai congegni istituzionali e dalle forzature, da molti in questi giorni rilevate, proprie della riforma istituzionale su cui mi sono intrattenuto già in altre fasi, c’è un dato significativo che va colto. Gli italiani sembrano da vari indizi in parte significativa stanchi del modo troppo divisivo in cui si fa politica in questo Paese.
Così come sembra maturare una qualche linea di fuga dalle solite forzature retoriche ad impronta un po’ populista. Il fatto che nei sondaggi più recenti e significativi, la figura del presidente della Repubblica continui a stare al primo posto con il riconoscimento di circa 2/3 degli interpellati, sembra a questo proposito non poco significativo.
Il Capo dello Stato è infatti l’unica figura per natura istituzionale non divisiva, con un potere neutro e al di sopra delle parti. Ciò che gli verrebbe più difficile essere una volta varata la riforma istituzionale come tanti esperti e osservatori già hanno rilevato.
E proprio mentre sembra maturare di più la necessità di ruoli e di figure non divisive, al di sopra delle parti, una riforma istituzionale come quella ipotizzata finirebbe per essere marcatamente più divisiva, visto che una parte significativa del potere sostanziale passerebbe ad un premier elettivo e di parte, e si ridurrebbe quello di un potere neutro e imparziale quale il Presidente della Repubblica.
Ma c’è un altro aspetto che mi sembra sia stato poco considerato, che riguarda la questione del rapporto tra i cittadini e le istituzioni. Credo che si stia diffondendo infatti la consapevolezza di non poter accettare un sistema elettorale basato in ogni caso su nomine e preposizioni alle cariche parlamentari da parte di “capi” e “cape” di partito, e cerchi magici vari, e non su vere e proprie elezioni.
La fuga dai seggi di molti cittadini non intervenuti nelle ultime tornate elettorali dello scorso anno denota una certa reazione della cittadinanza che non concepiscono un modello di questo genere basato sulla permanente ricerca di quello che divide invece che di quello che unisce, e su ciò che concerne le elezioni politiche, sostanzialmente su nomine.
Non è che magari finiremo per trovarci con un premier eletto dal 60% dei voti, ma con un corpo elettorale sempre più striminzito e magari inferiore alla metà dei cittadini elettori? Non mi pare che la riforma istituzionale ipotizzata sia tale da affrontare il nodo sostanziale della tendenziale fuga dei cittadini dalle istituzioni e quindi dell’esigenza di forme adeguate di recupero.
L’ormai quasi antica formula di Pasquino “restituire lo scettro al principe” sembra quindi più attuale che mai. Se i cittadini vedono che non dispongono di nessun serio titolo di investitura, ad esempio col Parlamento, si mettono ancora di più in fuga da un serio rapporto con le nostre istituzioni, tanto più di fronte alla troppa divisività in atto.  Sono questi spunti di riflessione e dubbi che credo possano e debbano essere tenuti presenti, una volta che si punta ad una riforma istituzionale.
Probabilmente molti cittadini preferiscono riappropriarsi dei veri poteri nella scelta dei loro rappresentanti in Parlamento, tramite strumenti come le preferenze, riavvicinandosi a quella che dovrebbe essere la casa comune della democrazia, piuttosto che un voto che magari di fatto sarebbe di tipo semi-plebiscitario per uno o una premier.


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