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Siamo in piena capocrazia? I dubbi di Tivelli

Il fenomeno della capocrazia non riguarda solo la super capa Giorgia Meloni, che detiene la sua leadership di partito e di governo molto saldamente e con rigore quasi thatceriano e Fratelli d’Italia. Sono diventati, infatti, capi o cape anche quelli che erano leader di altri partiti. Il commento di Luigi Tivelli

Nell’Italia delle cape e dei capi stiamo rischiando una forma di capocrazia. Uno degli articoli meno attuati, specie in questa fase, della Costituzione è, infatti, l’art 49 secondo cui spetta ai partiti “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. E proprio del metodo democratico in buona parte dei maggiori partiti italiani non c’è neanche l’ombra. I partiti oggi sono strutture molto deboli e labili, più gassose che liquide, finalizzate soprattutto ad elevare e sostenere la figura di un capo (o di una capa).

Ormai molti anni fa, uno dei migliori politologi italiani, Mauro Calise, ha pubblicato un libro che ha segnato una tappa significativa per l’analisi politica: Il partito personale (Laterza). Il testo di Calise si riferiva soprattutto al fenomeno berlusconiano e a Forza Italia che all’epoca era il partito di maggioranza relativa. Siamo però oggi davanti ad un indubbio salto in avanti, non certo positivo… Infatti per un verso il modello del partito personale era studiato sulla figura di Silvio Berlusconi, e non è che gli altri partiti seguissero tale impostazione.

Per altro verso la “capocrazia” segna un salto di “qualità” rispetto al modello del Partito personale. Infatti, con la capocrazia i capi e le cape debbono essere o apparire indiscussi; il modello dei partiti è esclusivamente top down, anche perché di modelli bottom up se ne vedono ben pochi… E poi a differenza di quanto avveniva quando Calise indagava il partito personale ora il capo o la capa con lo scettro del principe (o del re o della regina), ha anche la funzione di nominare i parlamentari. Trasformando, da questo punto di vista, le elezioni in un rito, in quanto il cittadino non dispone né delle preferenze, né di altri strumenti per l’effettiva scelta dei parlamentari.

È chiaro allora che i parlamentari o coloro che vogliono divenire tali sono adoratori dei capi e delle cape, salvo rare eccezioni. Un fenomeno ben evidenziato nell’ultimo libro dell’ottimo Michele Ainis, Capocrazia: Se il presidenzialismo ci manderà all’inferno (La nave di Teseo). Un saggio quello di Ainis che oltre a formulare una articolata analisi del presidenzialismo e del nostro sistema istituzionale delinea, inoltre, le patologie, gli errori e le criticità della proposta del cosiddetto premierato. Un “arlecchinismo costituzionale”, come sottolinea l’autore, che non solo non mantiene le sue aspettative e promesse elettorali (non realizzando per nulla un vero presidenzialismo), ma rischia solamente di aggravare l’emergenza istituzionale, vestendo l’istituzione del presidente del Consiglio con un vestito un po’ improbabile a toppe di arlecchino.

Una deriva che concentrerebbe i poteri nel presidente del Consiglio sbilanciando e indebolendo i contropoteri in maniera drastica. E che favorirebbe sostanzialmente l’unico “presidenzialismo (sgangherato) di fatto” che già c’è in Italia: la capocrazia. Un fenomeno che il tentativo di riforma istituzionale finirebbe per costituzionalizzare. Sia chiaro che il fenomeno della capocrazia non riguarda solo la “super capa” Giorgia Meloni, che detiene la sua leadership di partito e di governo molto saldamente e con rigore quasi thatceriano, e Fratelli d’Italia. Sono diventati, infatti, capi o cape anche quelli che erano leader di altri partiti. Mostrando quanto oggi la capocrazia non sia un punto di discontinuità o una eccezione, ma la regola del nostro sistema politico.

Nello stesso Pd i dissensi verso la Schlein, che è una sorta di capa speciale, diventata tale per la stupidità organizzativa con cui si sono indette le primarie (favorendo il voto di elettori di partiti diversi dal Pd), corrono solo sotto traccia. In tutti quanti i partiti ovviamente c’è un po’ di dissenso, ma esso rimane però covato sotto la cenere… Va poi sottolineato che quel fenomeno molto italico di salire sul carro del vincitore non si è verificato solo con la vittoria della Meloni, ma anche nel Pd. Se poi guardiamo in seno agli altri partiti sia Italia Viva che Azione, non sono partiti-organizzazione, ma partiti del capo Calenda e del capo Renzi.

Quanto ai cinquestelle sembra che Conte sia un capo, oggi più che mai, con una leadership più monocratica di quella di cui godevano in precedenza sia Beppe Grillo che Luigi Di Maio. D’altronde se ai tavoli di gioco principali, quelli per l’elezione dei parlamentari e quelli per le nomine negli enti e nelle aziende pubbliche, a dare le carte è sostanzialmente solo uno, o una, (al massimo contornato da un ristretto cerchio magico) è chiaro che man mano si affermi la capocrazia, i cui meccanismi sono ben spiegati nel saggio di Michele Ainis. A questo punto sorge però un quesito.

Posto che gli italiani sono ben più avvertiti di quanto ritengono non pochi capi e cape politici, non è che i cittadini si stanno “annoiando” a causa di questo fenomeno? Non è che sono stanchi del fatto che a loro è stato tolto lo scettro in quanto principi fondamentali in una democrazia, visto che il loro voto per le elezioni politiche sostanzialmente non può incidere? Visto che lo scettro è stato messo solo nelle mani dei principi o principesse che operano come cape o capi? Onestamente se si osservano un po’ i fenomeni con la chiave della sociologia e statistica politica si vede ad esempio che man mano nelle ultime tornate elettorali, l’astensione dal voto è diventata sempre più larga, in modo da fare diventare il partito degli astenuti il partito con la più ampia maggioranza.

E se tra i fattori principali alla base di questa forte crescita dell’astensione ci fosse la reazione agli effetti della capocrazia? Oggi infatti un cittadino che pur mantenga un minimo di sensibilità politica né ha a disposizione l’arma del voto, né quella di entrare in un partito e di incidere. Visto che il “metodo democratico” previsto dalla Costituzione nella vita dei partiti oggi si è fatta voce dal sen fuggita. Certo ai partiti probabilmente aderisce ancora qualche arrampicatore sociale alla ricerca di qualche piccola o media nomina nella sua città o cittadina Peccato però che nel procedere della capocrazia aumentino le linee di febbre nel rapporto tra cittadini-politica-istituzioni. Una questione che più di qualche capo o capa ritiene di affrontare spezzando il termometro, ma spezzare i termometri pensando di eliminare così la febbre non è sicuramente la strada giusta in una sana democrazia…



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