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Il problema per Ankara si chiama lira. La nuova sfida del sultano

All’indomani della sconfitta al voto amministrativo, la moneta nazionale ha accentuato la sua perdita di valore, dopo mesi di frenata sul dollaro. E questo perché gli investitori temono uno stravolgimento della politica economica fin qui messa a terra da Ankara

I mercati spesso mandano segnali e a volte la politica li coglie, altre volte no. Vale un po’ per tutti, anche per il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, fresco di batosta alle elezioni locali di domenica 31 marzo, con il controllo di molte città turche andato all’opposizione. La lira turca sta continuando a soffrire nei confronti del dollaro, andando incontro a un progressivo deprezzamento, costato nei primi tre mesi dell’anno il 9% del suo valore. Subendo, poi, in queste ore un altro colpo, fino a un certo punto riconducibile all’esito del voto amministrativo. D’altronde sono mesi che la valuta nazionale perde colpi, anche ben prima del voto di fine marzo.

Certo, la coincidenza c’è: per la moneta turca, che il governo di Erdogan ha in tutti modi cercato di sostenere, ricorrendo all’innalzamento dei tassi, oggi al 50%, quello di questi giorni rappresenta il secondo deprezzamento più grande tra le valute dei mercati emergenti dopo il peso cileno. E questo nonostante i tentativi finora messi in campo dal governo per risollevare la valuta, tentativi però non andati a buon fine. Anni di inflazione, oggi al 65% ma con la ragionevole prospettiva di arrivare al 70% prima di cominciare una lenta discesa, hanno indebolito la lira turca, facendole perdere nei primi sei mesi del 2023 il 27% del proprio valore.

Adesso però, le cose potrebbero andare peggio. Non è certo un mistero che, prima del voto, gli investitori avessero espresso preoccupazione sul fatto che una perdita da parte del partito al governo potesse ispirare modifiche alle politiche economiche fin qui messe a terra. I mercati, in buona sostanza, temono che Erdogan stravolga l’agenda economica e per questo hanno reagito in modo stizzito. Ma non bisogna mai dimenticare due cose.

Primo, le prossime elezioni presidenziali in Turchia (Erdogan è stato rieletto nel giugno del 2023) sono previste nel 2028 dunque è difficile immaginare uno stralcio tout court delle misure volute da Ankara. Le quali rimangono ben ancorate a tre principi: fermare la fortissima inflazione e per l’appunto il deprezzamento della lira turca, ricostituire le riserve valutarie che la banca centrale ha usato per sostenere in passato le scelte di Erdogan e ridurre l’enorme deficit commerciale del Paese.

Al netto dei timori per una situazione politica che comunque difficilmente muterà radicalmente prima di quattro anni, lo scetticismo dei mercati nei confronti della stabilità finanziaria turca non manca. A marzo, per esempio, la lira è scesa ulteriormente, con perdite dovute a un’inflazione, come detto, superiore alle attese e all’aumento della domanda locale di valuta forte, settimane prima del voto. La banca centrale, anch’essa alle prese con l’erosione delle sue riserve di valuta estera, è intervenuta per aumentare il tasso di riferimento di 500 punti base, portandolo al 50%, il mese scorso. Non è bastato a infondere fiducia nella moneta nazionale.

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