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Quel “programmatico” che giustamente Giorgetti non ha prodotto. Scrive Polillo

Le polemiche che hanno accompagnato il varo del Def erano più che scontate. Opposizione all’attacco e pronta a stracciarsi le vesti. Nulla di nuovo sul fronte interno della politica italiana. Ma un copione che si ripete. Prendiamoci tutto il tempo necessario, in attesa di capire quel che succederà da qui a settembre, sia sul piano militare che da un punto di vista politico. Tanto più che il generale elezioni, bussa alle porte. La riflessione di Polillo

Le polemiche che hanno accompagnato il varo del Def erano più che scontate. Opposizione all’attacco e pronta a stracciarsi le vesti. Nulla di nuovo sul fronte interno della politica italiana. Ma un copione che si ripete. Cambia l’oggetto del contendere, ma i risultati sono sempre gli stessi. Non c’è una cosa, per quanto piccola essa sia, che possa strappare non diciamo un plauso, ma almeno un sorriso. Quel pollice, invece, è sempre verso. Nella speranza, non sapremo dire quanto ben riposta, di generare un moto di rivolta. Che tuttavia non trapela dai sondaggi ed ancor meno, salvo l’eccezione sarda, dai risultati delle elezioni locali.

Eppure motivi per alzare il tiro ce ne sarebbero. Ma per conseguire un simile risultato ci vorrebbe una visione, una strategia realmente alternativa. Materia prima che latita in quel di Montecitorio e di Palazzo Madama. E allora meglio gridare allo scandalo che, nel caso del Def assume l’aspetto del reato di omissione. Nel documento approvato ci si limita infatti al solo “tendenziale” dell’economia e della finanza pubblica, omettendo tutta la parte programmatica.

Ovviamente non è la prima volta che questo si verifica. Le cronache raccontano di analoghe omissioni – ben quattro volte secondo la ricostruzione del Ministro Giancarlo Giorgetti – di cui le ultime due (Governo di Paolo Gentiloni e Mario Draghi) particolarmente significative.

Tanto più che nei casi considerati non dominava l’incertezza che caratterizza invece questo scorcio di legislatura a livello europeo. Quali saranno infatti i vincoli effettivi che l’Europa imporrà ai singoli Stati membri, in virtù delle nuove regole del Patto di stabilità e crescita? Queste ultime sono state definite nei loro postulati generali. Ma per quanto riguarda la loro effettiva vigenza c’è ancora molto da dire. Soprattutto da fare.

Lo stato dell’arte mostra infatti un percorso accidentato, scandito da date anticipate rispetto alle elezioni di giugno. Su cui toccherà ritornare. Al momento le regole sono state definite solo a livello di Stati. Manca, ancora, il varo del Parlamento, previsto per la fine del mese (22 – 25 aprile). Ci sarà battaglia, considerato che alcuni gruppi – tra cui il Pd – hanno già annunciato il loro voto contrario. Quindi ci vorrà il via libera del Consiglio europeo e la pubblicazione del testo sulla Gazzetta Ufficiale. Da quel momento le nuove regole saranno entrate a far parte dell’ordinamento giuridico europeo. E ciascuno potrà svolgere le proprie considerazioni.

In questo periodo di transizione, più o meno lungo, resteranno in vigore le vecchie regole del Patto, anche se servizi della Commissione hanno già dispensato i singoli Stati membri dal rispetto delle “linee guide, del formato e del contenuto dei programmi di stabilità e di convergenza, che risalgono al 2017”.

Nelle prossime settimane, inoltre, Eurostat (22 aprile) pubblicherà i dati relativi all’andamento del debito pubblico in rapporto al Pil relativamente al 2023. E la Commissione potrà avviare l’apertura della procedura per deficit eccessivo per alcuni Paesi tra cui l’Italia. Si dovrà tuttavia aspettare maggio per conoscere raccomandazioni specifiche per Paese, di cui gli Stati dovranno tenere conto nell’elaborazione dei loro piani.

Mentre si dovrà giungere al 21 giugno per conoscere “le traiettorie tecniche” della Commissione, ovvero gli obiettivi di aggiustamento dei conti pubblici a medio termine previsti dal nuovo Patto di stabilità, di cui i Paesi dovranno tenere conto nell’elaborazione dei piani pluriennali di spesa che dovranno inviare a Bruxelles entro il 20 settembre. Comunque i “piani strutturali fiscali” , come sottolineato da alcuni funzionari della stessa Commissione, ”sono lavori piuttosto formidabili che richiedono preparazione. Quindi non è che in un paio di settimane e con un paio di dipendenti pubblici che si scrivono».

Alla fine di questo lungo processo avremo pertanto il sospirato “programmatico” che le opposizioni avrebbero voluto scrivere “al buio”. Nemmeno si trattasse di una mano di poker. Federico Fubini, dalla pagine del Corriere della Sera ha cercato di bruciare le tappe, ipotizzando, al termine di questo lungo percorso, una manovra di circa 6 miliardi solo per rispettare la regola del debito. Salvo poi condire il tutto con le mille incognite che caratterizzano la situazione italiana: aumento delle spese militari, bonus permettendo e poste di bilancio rimaste in sospeso (19 miliardi). Operazione più che legittima da un punto di vista giornalistico.

Ma lo sarebbe anche stato in un documento di Governo da anticipare alla valutazione dei mercati? Quindi prendiamoci tutto il tempo necessario, in attesa di capire quel che succederà da qui a settembre, sia sul piano militare che da un punto di vista politico. Tanto più che il generale elezioni, bussa alle porte.

Dobbiamo avere la capacità di storicizzare certi avvenimenti. A distanza di solo qualche mese non possiamo dimenticare chi è stato uno dei principali artefici di quella (contro) riforma, che ha notevolmente peggiorato la proposta iniziale avanzata dalla Commissione, per bocca di Paolo Gentiloni. Si tratta, com’è noto, di Christian Lindner, Ministro delle finanze federali tedesco, nonché leader del Partito democratico liberale.

La sua posizione non rispondeva tanto ad un irrefrenabile impeto rigorista, quanto alla necessità di contrastare l’Alternative für Deutschland (AfD) in grado di erodere la sua base elettorale e quindi spingerlo fuori dell’arena politica.  La colpa di Olaf Scholz, se così si può dire, era stata quella di non aver saputo resistere a quelle pressioni indebite, che riducevano i socialdemocratici europei – di cui il Pd è componente importante – ad un ruolo ancillare.

Vedremo cosa succederà dopo il 9 giugno, quando saranno noti i risultati della contesa elettorale. Se ci sarà, cosa improbabile, quella continuità in cui alcuni sperano. O se, invece, il cambiamento degli equilibri europei non risulterà tale da imporre quella svolta che segnerà l’avvio di una nuova fase. Mario Draghi docet. Per far fronte al grande sommovimento geopolitico che sta segnando l’orizzonte internazionale.

Se così fosse, quelle stesse regole finanziarie dovranno essere nuovamente rivisitate per consentire al Vecchio Continente di far fronte ai propri impegni: clima, difesa comune, riconversione produttiva nel segno di una maggiore sicurezza dei relativi approvvigionamenti.

A partire dall’energia e dalla ristrutturazione delle catene del valore. Obiettivi che le regole del Patto di stabilità e crescita, appena decise sotto la spinta delle contingenti esigenze elettoralistiche, renderebbero quasi impossibili da perseguire. Ragione di più per aspettare, prima di formulare ipotesi programmatiche, destinate ad essere solo controproducenti.

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