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Ha ragione il papa, Beirut cosmopolita è la via per la pace. La riflessione di Cristiano

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Il Libano che seppe riprendersi dal disastro durato quindici anni oggi potrebbe fare altrettanto se investisse non in esplosioni, ma in nuove progettazioni economiche plurali. Così il conflitto avrebbe un’alternativa viva: quella della reciproca accettazione. È il soft power del cosmopolitismo l’arma segreta del Libano, non l’hard power miliziano. La versione di Riccardo Cristiano

Ieri mattina, 26 agosto, Papa Francesco ha ricevuto una delegazione dei parenti delle vittime dell’esplosione che il 4 agosto 2020 ha ridotto in polvere il porto di Beirut, cioè l’anima – non solo commerciale – della capitale libanese. E siccome il Libano ha due anime, forse è il caso di capire la scommessa di Francesco, che appare elementare dolore per le vittime ma che invece contiene una visione regionale, a mio avviso coltivata dalla segreteria di Stato vaticano, dove il cardinale Parolin conosce benissimo, e da decenni, il Libano, Beirut e la loro decisiva funzione di pace o di guerra, sottovalutata da tutti gli altri.

Le responsabilità della distruzione del porto di Beirut sono state insabbiate con ostinazione da Hezbollah e dai suoi passacarte seduti nel governo libanese, perché la milizia khomeinista è chiaramente responsabile della causa di quell’esplosione, avendo nascosto nello scalo commerciale della capitale libanese un quantitativo gigantesco di esplosivo. Qualcosa di non identificato l’ha fatto esplodere, causando un quasi fungo atomico che ha devastato mezza città e reso inagibili interi quartieri attigui, quasi tutti cristiani.

Ecco perché la delegazione era costituita da cristiani. Ma il Papa ha detto loro: «Il Libano è, e deve restare, un progetto di pace. Non dimentichiamo quello che un Papa ha detto: “Il Libano è un messaggio, e questo messaggio è un progetto di pace” (S. Giovanni Paolo II, messaggio a tutti i vescovi della Chiesa cattolica sulla situazione nel Libano, 7 settembre 1989). La sua vocazione, del Libano, è di essere una terra dove comunità diverse convivono anteponendo il bene comune ai vantaggi particolari, dove religioni e confessioni differenti si incontrano in fraternità». Nulla dunque di identitario, confessionale, perché Beirut è una città cosmopolita, oppure non è. Cosa vuol dire?

Beirut all’inizio dell’Ottocento era solo una piccola fortificazione sul mare, ma la fuga di tantissimi dalle guerre tribali sulle montagne attigue ne ha fatto in pochi anni una metropoli, il più grande scalo del Levante, insieme ad Alessandria e Salonicco. Ecco le due anime del Paese: la montagna etnica, confessionale, tribale, e la città cosmopolita. Infatti, in una sera dell’Ottocento, dopo intense negoziazioni, i notabili di tutte le comunità che sui monti si combattevano ancora, da Beirut, scrissero una petizione comune al sultano: “Riconosca questa perla del mare come capitale regionale nel suo impero, aiutandoci tutti a farla crescere”.

C’erano grandi e storici rivali, ma Beirut la spuntò. Un’idea semplice e geniale ne segnò il successo: i mercanti beirutini di fede musulmana commerciavano con i ricchissimi mercanti musulmani della grande Damasco, quelli di fede cristiana commerciavano con quelli europei, loro correligionari con i quali meglio si capivano. La città che unisce sapeva tenere insieme chi aveva ancora pregiudizi ideologici, come i mercanti europei e damasceni, un capolavoro.

L’architettura urbana corrispondeva a questo spirito: nacque infatti uno stile architettonico tutto nuovo, il neo-orientale, e con esso una città euro-araba, che grazie al porto diventava anche mediterranea. Questo stile donò al mondo la finestra libanese, quella a tre archi, bellissima. Il contesto urbanistico rimaneva quello della kasbah, ma c’erano anche viali. Beirut era una rivoluzione urbanistica. Inoltre, la complessità socioculturale e confessionale urbana non consentiva a nessuno di imporre il silenzio agli altri, e così Beirut è cresciuta nel pluralismo culturale e politico, con giornali e libertà di stampa. Un’altra anomalia araba.

Quando la guerra civile divampò nel 1975, causata dai sommovimenti regionali che coinvolsero il Libano e appesantita dalle difficoltà a governare in modo pienamente inclusivo quello sviluppo tumultuoso, chi si scagliò contro Beirut furono settori cristiani, pezzi di falangisti che con i loro leader volevano sostituire il centro cittadino, così promiscuo, con una città nuova, tipo Berlino, con viali larghi e ben distesi. Per questo il centro fu completamente distrutto in una guerra divenuta di tutti contro tutti. Ecco che emerse chiaramente il rischio: la fine della guerra, nel 1990, avrebbe portato la vecchia anima tribale a prevalere, la montagna avrebbe vinto sulla città? Chi lo ha impedito è stato Rafiq Hariri, che ricostruendo il centro di Beirut ha ridato a tutti il luogo comune, condiviso: l’anima cosmopolita era tornata viva e si dimostrava vincente.

Ecco perché non sono parole di circostanza, sdolcinate e vuote di significato o prospettiva, quelle che il Papa ha detto ai suoi ospiti libanesi: Hezbollah, deliberatamente o preterintenzionalmente, se l’esplosione fosse stata innescata da un fattore esterno, ha comunque dichiarato guerra a Beirut. L’anima di Hezbollah non è solo miliziana, è khomeinista, il suo progetto si colloca all’interno dell’imperialismo persiano. Non deve necessariamente imporre la conversione, ma imporre a tutto il Libano una fedeltà all’esportazione armata della rivoluzione e dei suoi interessi politici, culturali e commerciali. E, in questo, dei complici si trovano: basta convincere la gente che con i sunniti – confessione islamica prevalente tra gli arabi ma ostile agli sciiti, quali gli iraniani e i miliziani di Hezbollah – è impossibile convivere per un loro innato “totalitarismo”, la teorizzata dittatura della maggioranza.

Questa idea ha un nome: alleanza delle minoranze. E alcuni leader cristiani l’hanno condivisa o la condividono. Eppure è stato un sunnita, Rafiq Hariri, a supplicare i leader religiosi musulmani del suo Paese ad accettare lo storico invito di Giovanni Paolo II a partecipare al sinodo sul Libano, nel 1995, cioè alla guerra civile riunita ma ancora da curare. Non era una dittatura della maggioranza quella a cui pensava Hariri, ma un Libano plurale, e forse il Libano gli stava stretto, la sua visione era quella del soft power della crescita economica in alleanza con l’Europa per rifare il mondo arabo.

Ecco allora che il Papa, a mio avviso, ha detto ai suoi ospiti libanesi il vero motivo per cui la giustizia è indispensabile: “L’anima tribale porta all’autodistruzione, come è accaduto con il disastro del porto, smascherarne l’indole suicida dimostrerà che le comunità non possono essere gabbie, il Libano può crescere e prosperare se supera i propri limiti e diventa un modello regionale in un mondo arabo in subbuglio, proponendo lo spirito che ha fatto grande Beirut e poi tutto il Paese”.

Si, il Libano è stato grande nell’epoca cosmopolita: mentre i grandi Paesi arabi sprofondavano nei fallimenti del dirigismo, la libera impresa libanese attraeva capitali da tutto il mondo, tanto che la Banca del Libano faceva prestiti all’India, in lire libanesi, e la compagnia aerea, la Mea, era la quarta al mondo.

Quell’esperimento non fu solo rose e fiori: Beirut era circondata da un’impressionante cintura della miseria, fatta soprattutto da contadini sciiti, ai quali il governo non seppe offrire uno sviluppo prima della catastrofe della guerra civile. Ma il Libano che seppe riprendersi da quel disastro durato quindici anni oggi potrebbe fare altrettanto se investisse non in esplosioni, ma in nuove progettazioni economiche plurali. Gli sciiti di Beirut potrebbero essere il ponte per capire Teheran, i cristiani il ponte per capire l’Europa, i sunniti quello per capire il Golfo e le sue corone lanciate nella trasformazione della loro economia.

Così il conflitto avrebbe un’alternativa viva: quella della reciproca accettazione. È il soft power del cosmopolitismo l’arma segreta del Libano, non l’hard power miliziano.



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