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Onestà e virtù di una volta?

Osama Bin Laden è morto. Lo ha solennemente annunciato a tutto il mondo Barack Obama. Il presidente degli Stati Uniti, non Carneade. Eppure in tanti non ci credono. Come San Tommaso vorrebbero toccare il corpo del capo di Al-Qaeda, che però giace in fondo al mare alimentando altri sospetti. Perché c’è chi non crede alla parola del presidente degli Stati Uniti? La guerra al terrore è stata voluta da George W. Bush. Obama è un democratico, è stato insignito del Nobel per la Pace e, sin dal suo insediamento, ha promosso il ritiro delle truppe. Dovrebbe bastare per contare su un minimo (sic!) di credito. No, a quanto pare, non basta. Non solo ai complottisti della rete, ma a fior di intellettuali (ironia della sorte, soprattutto della sinistra democratica). Ma perché in tanti non credono alle dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti? Certamente si può scomodare Machiavelli, che insegnando l’arte del governo ai principi ne ha svelato l’intrinseca amoralità. Dal Cinquecento è conclamato: il principe è un centauro, ossia metà uomo e metà animale, perché la politica deve rispondere a logiche diverse dalla morale e azioni eticamente riprovevoli possono essere politicamente utili ed efficaci.
 
La vera ragione, però, è che è venuta meno la fiducia nell’altro perché, nella società liberale, non si ha il dovere di essere onesti, ma di rispettare le leggi. Lo aveva teorizzato già Fichte: “Ciascuno può pretendere soltanto la legalità dell’altro, non la sua moralità (…) la volontà buona verrebbe resa non necessaria per la realizzazione esterna del diritto, in quanto la volontà malvagia, e avida delle cose altrui, verrebbe condotta a perseguire lo stesso fine di quella buona dal suo proprio desiderio illegittimo”. Così, da tempo, siamo avvezzi non solo a non chiamare a responsabilità i politici per essere venuti meno alle promesse fatte nelle campagne elettorali, ma ad accettare condotte e stili di vita dai quali continuiamo a mettere in guardia i figli adolescenti perché “ognuno è libero di fare quello che vuole a casa sua” (soprattutto se ha successo mediatico o è ricco). Sembra che l’onestà e le virtù non interessino più a nessuno. L’Antitrust arriva a censurare il valore dell’onore, come principio guida della deontologia dei professionisti. Eppure già Tocqueville aveva ammonito che l’onore, “molla” del regime aristocratico, dovesse essere salvaguardato anche nelle democrazie perché espressione del pubblico riconoscimento, da parte della comunità, del possesso da parte del singolo delle virtù nelle quali quest’ultima si riconosce. In una scuola è stato istituito un premio in denaro per gli studenti con una certa media. Si è lungamente discettato se fosse opportuno dare contanti o se non fosse preferibile riconoscere dei buoni in modo da indirizzare lo studente a mostre, eventi culturali, ecc. A nessuno è venuto in mente che, forse, anche i ragazzi di oggi possono essere stimolati a studiare dal conferimento di medaglie o attestati, come accadeva un tempo. Li considerano, tout court, insensibili a quelle forme di pubblico riconoscimento che hanno accompagnato gli studi di altre generazioni. Eppure nello sport basta una coppa per sostenere tanti sacrifici.
 
Sono i giovani del XXI secolo ad essersi inariditi tanto da credere solo nella vile pecunia o siamo noi a proiettare su di loro la nostra sfiducia nel prossimo? Certo è che, se la virtù non costituisce più un merito e la società non le tributa il giusto onore è chiaro che altre ambizioni ed egoismi prendono il suo posto, determinando quel clima di generale scetticismo che caratterizza la convivenza quotidiana. Poco serve promuovere il merito, se poi questo non viene considerato un valore a cui dare pubblico riconoscimento (l’onore), così stimolando l’emulazione. Per gli antichi l’educazione è mimesi e René Girad ha dimostrato come anche la società contemporanea sia governata dal desiderio mimetico. Si tratta di una lezione che non va dimenticata. Ogni giorno si discute della riforma della giustizia, ma quanti processi potrebbero essere evitati se lo stare pactis fosse ancora considerato un dovere sociale, prima che giuridico, la cui violazione espone alla pubblica recriminazione?
 
antonio.leozappa@studioleozappa.it
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