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Riformare l’eurozona (senza farsi troppo male)

A poco più di dieci anni dalla sua creazione, l’eurozona ha seri problemi: la crisi di liquidità (ove non di solvibilità) di alcuni dei suoi Stati membri, i forti differenziali dei tassi d’interesse, la divergenza tra saggi di crescita reale ed andamento della produttività e della competitività, i saldi attivi dei conti con l’estero di alcuni Paesi membri e quelli passivi di altri. Per uno Stato uscire dall’eurozona può voler dire una forte contrazione (4-5%) del Pil; smantellarla equivarrebbe a fare fallire il progetto d’integrazione europea a cui si lavora da 60 anni.
Per riformarla senza farsi troppo male, ossia senza costi troppo elevati, si potrebbe seguire un metodo analogo a quello utilizzato nel 1993-1999: un percorso a tappe ben definite con criteri ed indicatori prestabiliti. Nonché mutuare lezioni recenti di alcune unioni monetarie in cui le regole sono state cambiate senza pagare dazi troppo alti quali l’uscita dalla “dollarizzazione”, ossia dell’uso del dollaro come moneta nazionale, da parte del Perù e dell’Ecuador e un po’ più lontani nel tempo in Asia, quali l’uscita di Singapore e del Brunei nel 1967 dall’unione monetaria con la Malesia. In seno all’Asean (Associazione delle nazioni del sud est asiatico), dove si pensava di creare un’unione monetaria analoga all’eurozona, ora si sta guardando a queste esperienze.
Il metodo del percorso a medio termine seguito per dare vita all’euro è utile perché proprio le vicende di uscita dalla “dollarizzazione” provano che la gradualità (a tappe molto chiare) premia (il caso di Perù e Ecuador) mentre la mossa brusca costa cara (ne sa qualcosa l’Argentina).
 
Le tappe, però, non devono essere contrassegnate solamente da indicatori monetari e di bilancio ma da puntelli chiari e trasparenti di economia reale. Il nodo di fondo dell’eurozona, infatti, non è solamente la mancanza di strumenti “europei” di politica di bilancio che facciano da correttivo alla politica della moneta, ma l’esistenza di radicate differenze nelle strutture di produzione e, perciò, di produttività dei fattori di produzione e dei tassi effettivi di andamento dei prezzi di prodotti, servizi e fattori di produzione. In breve, la moneta unica non è stata il grimaldello per avvicinare i comportamenti dei soggetti economici (individui, famiglie e imprese). È verso tale convergenza che occorre andare, poiché uno stesso migliore coordinamento delle politiche macroeconomiche avrebbe effetti limitati se i comportamenti micro-economici di individui, famiglie ed imprese continuassero a divergere.
Qualche timido passo si intravede nel recente “patto euro-plus”, specialmente con l’introduzione di indicatori di produttività. Sono, però, pochi ed occasionali. Sarebbe, invece, utile arricchire gli indicatori di economia reale e definire tappe per la loro convergenza in un percorso pluriennale, unitamente a misure di accompagnamento per quei soci del Club che non riescano ad avvicinarsi al resto della cordata. Evitando uscite traumatiche, potrebbero confluire in un accordo di cambio analogo allo Sme 2 (l’accordo sui cambi tra le banche centrali di alcuni Stati dell’Ue che non appartengono all’eurozona, da un lato, e la Banca centrale europea, dall’altro). L’alternativa è il groviglio di apprezzamenti e deprezzamenti impliciti quali quelli accumulatisi negli ultimi quindici anni.
 
Ne risulterebbe un’Europa a due o più velocità? Nei fatti lo è già; in un’area dell’euro che cresce mediamente all’1,7%, c’è chi corre quasi al 3% e chi arranca per tenere l’1%. Meglio cercare di affrontare le radici (in gran misura microeconomiche e strutturali) del differenziale di crescita e farlo in un lasso di tempo ben definito e con tappe prestabilite, che fingere che non esistono o che possono essere appianate con qualche artificio, oppure sperando in un miracolo.
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