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Un fenomeno politicamente improduttivo

Ci si può sforzare a trovare un senso o un valore all’Occupy movement che si è manifestato negli ultimi mesi un po’ ovunque nel mondo occidentale, ma l’impresa alla fine risulta vana. Escludendo i moti che hanno interessato i Paesi islamici (le cosiddette primavere arabe), su cui per evidente mancanza di informazioni non mi sento di dare un giudizio, credo che bisogna avere il coraggio di abbandonare il “politicamente corretto” dicendo senza ipocrisie che si tratta di un fenomeno politicamente improduttivo. Alla base di esso c’è un sentimento forse nobile, l’indignazione, che è in primo luogo rivolta alla constatazione della crescita delle diseguaglianze sociali nel nostro mondo occidentale (ma a livello globale le cose non stanno affatto così).
 
Ma è un sentimento che per farsi forza politica avrebbe bisogno di una visione, un progetto, una “sostanza di fede” che non è dato vedere. Se puntiamo l’attenzione sui partecipanti al più importante di questi sommovimenti, quello di Zuccotti Park noto come “Occupy Wall Street”, ci rendiamo facilmente conto che ci troviamo di fronte ad un magma confuso di giovani senza idee né progetti che ha come unico comune denominatore un generico odio per “banche e multinazionali”. Sono persone che hanno in odio la globalizzazione, e quindi anche la deriva mediatica delle nostre società.
 
Ciò nonostante sanno usare alla perfezione i mezzi della comunicazione, tirando fuori da essi ogni potenzialità. Il che potrebbe anche non essere una contraddizione, se dietro ci fosse una strategia, tipo quella che avevano i vecchi situazionisti. Le televisioni hanno abbondantemente coperto con dirette la vita a Zuccotti Park, ma tutto ha finito con l’assumere l’aspetto di un reality show. E non solo l’aspetto, se è vero che Mtv ne ha messo in cantiere uno esplicitamente ambientato nel luogo della contestazione: apprendiamo che si chiamerà True life: I’m occupying Wall Street e seguirà giorno per giorno le dinamiche di gruppo che si creeranno e i rapporti interpersonali che si intrecceranno fra giovani manifestanti opportunamente selezionati attraverso casting.
 
Ancora una volta la società dello spettacolo ha avuto la meglio sui suoi sedicenti contestatori, inglobando la protesta stessa nei suoi schemi e rendendola a sua volta uno spettacolo. D’altronde, le proteste cilene non avrebbero fatto notizia più delle altre, come invece è avvenuto, se l’occhio indiscreto e morboso della televisione non avesse puntato le telecamere sulla avvenente leader studentesca ventitreenne Camilla Vallejo Dowling, il cui volto, come è stato detto, sembra fatto apposta per “bucare” i teleschermi. Di che stoffa poi la Vallejo sia fatta, l’ha dimostrato nel suo recente viaggio a Cuba ove ha esaltato Fidel Castro e si è rifiutata di incontrare la leader dei dissidenti Yoani Sanchez.
 
Certo, la parola antipolitica è abusata, ma francamente non saprei come definire in altro modo questo agitarsi inconcludente e confuso. Non mi si fraintenda. Anche io credo che mai come in questo periodo gli “spiriti animali” del capitalismo stiano generando molti problemi, e che vadano perciò addomesticati, se si crede in questo sistema di produzione, o sradicati, se marxianamente si vuole fuoriuscire da esso. Ma anche in questo secondo e irrealistico caso, bisognerebbe convenire con Marx, che certamente se ne intendeva, che senza consapevolezza, realismo, progettualità concreta, non si va molto lontano. Non è un caso che il pensatore tedesco abbia individuato, a suo tempo, in una classe sociale ben precisa, il proletariato di fabbrica, che ha nettamente distinto dal sottoproletariato urbano o Lumpenproletariat, il soggetto di una consapevolezza e coscienza di classe che si sarebbe fatta generale.
 
Certo, oggi quel proletariato è sempre più minoritario, ma non sono o Lumpenproletariat, il soggetto di una consapevolezza e coscienza di classe che avrebbe dovuto farsi generale. Certo, oggi l’operaio è sempre più una minoranza nella società, è una figura che tende a scomparire. Eppure, non possono essere affatto le “moltitudini” disorganizzate a sostituirlo, come teorizzano ad esempio Michael Hardt, Toni Negri o il filosofo sloveno Slavoj Zizek, che in poco tempo è diventato il teorico del movimento. Non si può combattere il capitale coi mulini a vento, anche perché esso non è affatto disorganizzato e molecolare come qualcuno vorrebbe far credere. Esso si concentra oggi in poche e facilmente individuabili centrali di potere, soprattutto finanziario.
 
Di questo ne è consapevole anche chi, come chi scrive, continua a credere invece che il sistema capitalistico sia il più efficiente sistema di produzione delle ricchezze finora conosciuto e che è da irresponsabili, oltreché campato in aria, proporsi di abbandonarlo. Ciò, in una prospettiva come la mia, significa anche che il capitalismo, fondandosi sulla “naturale” propensione umana alla ricerca del profitto o dell’utile, è a sua volta il sistema di produzione più “naturale” che esista. Ma, come tutti i sistemi che tendono ad “aderire” all’essenza ancipite dell’umano, esso tende anche a farsi assoluto, cioè a rivestire di sé tutti gli ambiti dell’umana attività. Il compito, che non può dirsi mai terminato, ma che in momenti come quello attuale assume una particolare rilevanza, è quindi quello di regolarlo, limitarlo, temperarlo.
 
Non di trovare un impossibile equilibrio fra domanda e offerta (che è quello che vorrebbero coloro che hanno una visione economicistica della vita, siano essi liberisti puri o marxisti puri), bensì di lavorare per un “umano” e “naturale”, cioè dinamico, equilibrio, se così si può dire, fra equilibrio e disequilibrio. In un senso o nell’altro, il realismo politico ci impone di tener testa al ribellismo fine a se stesso di occupanti e indignati con lo studio attento del nostro mondo. Solo sulla conoscenza delle dinamiche profonde di esso, si può costruire una prospettiva vera di trasformazione. Che per me può essere solo quella che lavora ad eliminare gli attuali effetti negativi del capitalismo senza però gettare il bambino con l’acqua sporca.
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