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Web-apocalittici e web-integrati

Le conquiste tecniche dell’umanità sono state sempre accompagnate da preoccupazioni diffuse o da entusiasmi esagerati. Si è sempre guardato da parte di alcuni con preoccupazione e toni apocalittici alle trasformazioni nel modo di vivere e di produrre; e da parte di altri si è salutato con enfasi spropositata l’avvento del progresso e la connessa costruzione di una nuova società o persino dell’“uomo nuovo”.
 
È la contrapposizione fra apocalittici e integrati, di cui, in altro contesto, parlava Umberto Eco già nel 1964. Credo che si tratti di due posizioni unilaterali che non reggono al rigoroso esame del pensiero critico. Così come non regge, a mio avviso, una terza posizione, che vorrebbe essere di compromesso e che suppergiù recita così: la tecnica è un mezzo, un mero strumento nelle mani dell’uomo: essa è, in quanto tale, neutrale e può essere usata così a fini di bene come a fini di male. Puntuali queste posizioni si stanno riproponendo oggi a proposito dell’avvento di Internet e della “società in rete”.
 
Certo, il progresso del web viaggia a passi veloci, come non è accaduto per nessun’altra tecnologia umana in passato: sono passati solo poco più di venti anni da quando, nel 1991, l’informatico inglese Tim-Berners-Lee pubblicò in rete il primo sito. Oggi la rete è addirittura onnipervasiva: ha cambiato radicalmente la comunicazione umana, e insieme il mondo della finanza, dell’economia e della pubblica amministrazione, giusto per fare degli esempi.
 
Non solo: secondo alcuni essa avrebbe anche modificato, o starebbe per farlo in modo radicale, il nostro modo di essere e di pensare. Il che, secondo i fautori di questa prospettiva, sarebbe di per sé un male, a prescindere. Che è poi una sorta di pregiudizio conservativo o reazionario, che assume come valore non giustificato una “natura umana” già sempre data e consegnataci (ma l’uomo non è forse quell’ente che, come ci hanno insegnato i filosofi, vive sempre e solo come possibilità?).
 
Paolo Ercolani, autore di un recente e controverso volume dai toni apocalittici su Internet (L’ultimo Dio, Dedalo 2012), si richiama, ad esempio, alla classica tesi di due massmediologi americani, David Roberts e Christine Bachen, che nel 1981 scrissero nella “Annual review of psycology” che i mezzi di comunicazione esercitano un’influenza e un potere straordinari “sul modo di percepire, pensare e agire delle persone nel loro mondo”. In sostanza, parafrasando il titolo di un saggio inglese di successo di due anni fa, scritto da un altro “apocalittico”, Nicholas Carr, Internet ci renderebbe tutti più stupidi. Alla percezione chiara e distinta, al pensiero critico e razionale e all’azione lineare e conseguente si sostituirebbe la confusione spazio-temporale degli eventi percepiti, un pensiero immediato ed emotivo e un’azione sconnessa e senza senso. Parafrasando il Vico de La scienza nuova, gli uomini regredirebbero dalla fase in cui riflettono con mente pura a quella in cui avvertono con animo perturbato e commosso. Sulla stessa linea di pensiero Paul Virilio, autore nel 1998 di un saggio su La bomba informatica, ha immaginato futuri scenari biopolitici da incubo. L’“eugenismo cibernetico” che metterebbe al servizio del mercato le informazioni disponibili in rete sul nostro patrimonio genetico al fine di controllarci o eterodirigerci.
 
Ovviamente, l’insistenza sui pericoli della fine della privacy si interseca quasi sempre ad analisi di questo tono. Dimenticando del tutto di confrontarsi con quella consapevolezza filosofica che ci dice che anche l’individuo non è un dato astorico, ma il risultato di un processo che è coinciso, nella modernità, con la creazione di uno spazio privato contrapposto a quello pubblico in modo netto. Uno spazio da preservare e garantire in virtù di non giustificati ed eterni “diritti umani”. Un ordine di pensiero acapocalittico che, in teoria come in prassi, è fatto proprio dal linguista Raffaele Simone, autore del recente Presi nella rete (Garzanti). Secondo Simone “la conoscenza acquisita via Internet è slegata, di qualità incerta e non controllata da nessuno; la democrazia favorita dai social forum è senza tesi, senza testa e senza organizzazione”.
 
Acriticamente entusiasti di Internet sono invece autori come Kevin Kelly, Nicholas Negroponte o Pierre Lévy. Interessante in questa sede è però forse osservare perché a uno sguardo critico non regge nemmeno la posizione “neutralista”. Non certo perché, come pensa Ercolani, lo strumento (tecnico) modifica l’agente (umano). Ma perché piuttosto fra uomo e mezzo c’è un rapporto talmente intrinseco che le cose, come ci insegna Heidegger, ci si presentano sempre e solo nella loro utilizzabilità. L’ente non è semplicemente presente, ma è prima di tutto un “essere per la mano”, per usare il linguaggio heideggeriano, un quid connotato a priori dalla rete delle sue possibili utilizzabilità. È su questa scia di pensiero, a mio avviso, che si smonta con facilità anche l’idea che caratterizza molte di queste posizioni di un umanismo da preservare, restaurare o a cui tendere.
 
Si afferma con troppa facilità che l’uomo, assorbito dalla rete, tende a perdere la sua più propria umanità, che è fatta anche e soprattutto di una fisicità di contatti. Il pregiudizio umanistico è “essenzialistico” e “fissistico”: è un modo di ragionare che presuppone, senza darne adeguata giustificazione razionale, che esista una “natura umana” data e fissata, in sé positiva; una “naturalità” di ciò che è propriamente umano. Ma davvero Internet limita i contatti fra gli uomini? Ed è proprio sicuro che il concetto classico di uomo debba essere il parametro del giudizio e l’ideale normativo? Più radicalmente è da chiedersi: è possibile riproporre oggi l’umanismo? E l’umanismo è del tutto innocente da un punto di vista filosofico? Non è stato forse la credenza in una idea forte e fissata di ciò che è umano, un’idea di per sé escludente e non aperta al futuro, la causa prima di tante tragedie del passato?
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