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Berlusconi e i giudici, una storia controversa

Dal 1994 Berlusconi non ha mai cambiato idea. I poteri non sono tre, ma due: quello del popolo che elegge il Parlamento, e quello del governo che lo riceve dagli eletti dal popolo. Poi c’è l’ordine giudiziario, chiamato solo ad applicate le leggi. I pubblici ministeri, quindi, per lui non sono altro che contropoteri rispetto a istituzioni sovrane che ricevono la loro legittimazione non da un’investitura tecnica (il concorso), ma dal suffragio universale.

Non sono un costituzionalista, ma mi pare evidente che il Cavaliere così riscrive la separazione dei poteri secondo schemi giacobini. In alto ci sono l’esecutivo e il legislativo, che propongono e approvano le leggi. In basso ci sono i giudici, ovvero la “bocca della legge”. Questa distinzione rigida è il frutto di una interpretazione ottocentesca della divisione dei poteri, teorizzata nel 1748 dal barone di Montesquieu. A questa interpretazione si contrappone quella americana, secondo la quale i poteri concorrono tra loro alla pari.

Ora, l’insofferenza e perfino l’astio per l’opera dei magistrati, come il martellante richiamo alla volontà degli elettori, fanno parte – al netto delle disavventure giudiziarie del Cavaliere – di una concezione paternalistica dello Stato, di una cultura che teorizza una democrazia monistica, invece che conflittuale.

Tuttavia, queste posizioni estreme quanto inaccettabili hanno il merito di mettere in evidenza qualche difetto delle istituzioni vigenti. Il principale – come osservava Sabino Cassese in un libretto ancora attualissimo (“Maggioranza e Minoranza”) – dipende dal modo in cui si è assicurata l’indipendenza del giudice. E cioè mediante il ricorso a un organo collegiale, in prevalenza rappresentativo di giudici.

Questo modo di garantire l’indipendenza attraverso l’autogoverno ha portato il Csm a dilatare i suoi compiti e a presentarsi come la Camera dei giudici, mentre doveva essere lo scudo contro le invadenze governative. Un sistema – aggiungeva Cassese – che si espone sia ai rischi di politicizzazione che di corporativismo.

Capisco che quando Berlusconi parla di riforma della giustizia possa venire l’orticaria. Non è però un buon motivo per mettere la testa sotto la sabbia, misconoscendo che, insieme a drammatici problemi di funzionamento operativo, ci sono anche serie questioni di assetto istituzionale che andrebbero affrontate con coraggio.

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