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Il “grande reality” stile Grillo e Casaleggio

Le subbugliose giornate che stanno vivendo le istituzioni stanno evidenziando come più s’abbassa il quoziente di proposta politica, più aumenta la significanza della gestualità dei politici. Sicché la comunicazione su tutti i media, si concentra sugli insulti, le risse, lo scambio di volgarità, l’invasione di campo di autorità che dovrebbero essere superpartes e, invece, scendono nella mischia delle contrastanti propagande.

Nel 1994, quando il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica si manifestò non solo come riverbero del superdominio di Mani Pulite e di una ondata moralistica che fece evaporare la politica, si ritenne, da molti, che c’era stato un trionfo della comunicazione; e di chi, più di altri soggetti tradizionali, dimostrava di possedere una singolare presa sugli elettori, dando vita a partiti di plastica, deideologizzati ma capaci di entrare in sintonia coi destinatari del proprio messaggio. In effetti, come fa osservare il notissimo Ilvo Diamanti nella sua Prefazione al volume di Mario Rodriguez, Consenso. La comunicazione politica tra strumenti e significati (Guerini e Associati, 2013), secondo l’autore «saper comunicare significa, in primo luogo, capacità di entrare in sintonia col destinatario, con la persona con la quale ci si relaziona; poi, secondariamente, capacità di trovare le modalità efficaci per trasferire messaggi».

Mario Rodriguez, che è un affermato esperto e docente di comunicazione politica, è convinto che la consultazione elettorale di un anno fa ha segnato un «passaggio d’epoca»: ridimensionando i contenuti specifici di Berlusconi perché valori e immagini da lui offerti per vent’anni non funzionerebbero più in tempi di crisi economica, mentre si è andata affermando, con Grillo e Casaleggio, una «democrazia della rete», benché espressa in termini più distruttivi dell’intero passato che propositivi per un futuro prossimo e remoto. Insomma, la televisione (prima) e il personal computer (poi) hanno innescato un processo di personalizzazione, che ha evidenziato ancora di più il ruolo della scelta dell’individuo, «compratore, spettatore, internauta che sia». In tal modo il sense making domina sul decision making e la politica è andata trasformandosi in un «grande reality». Che poi, a mio modo di vedere, si rivela essenzialmente come antipolitica e antistituzioni, peggiorando ulteriormente il sistema comunicativo italiano e l’intero sistema istituzionale.

Il libro si sofferma sulla «mutazione antropologica» dei soggetti politici, sulla centralità del ricevente rispetto al tradizionale inviante, poiché si sono modificati i processi formativi dell’opinione, la tecnologia va facendo la differenza tra le forze politiche e nella mente degli utenti, «esisti solo se sei visibile», si è fatto credere che «conto anch’io», ma in fondo si vive alla giornata, purché lanciandosi sistematicamente all’assalto di tutto pur di abbatterlo. E qui verosimilmente si allude alla rottamazione renziana.

Rodriguez rivendica il principio che «comunicazione è democrazia»; e fa bene. Ma se il web cambia (e altera) i modi di esprimersi del nostro tempo, la comunicazione dell’ultimo tipo grillino, se continua a mantenere le relazioni pluriquotidiane con un mondo ristretto, selezionato perché ubbidisce sempre e senza discutere al capo, la democrazia, risulta enormemente peggiorata: non persuade ma vincola e, quindi, non produce consenso. Che è poi la chiave di volta di un sistema politico e sociale che non voglia sprofondare nel baratro dell’immaginare il vuoto.

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