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Perché Draghi non riuscirà a convincere Merkel sull’euro debole

Pubblichiamo grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori e dell’autore, l’articolo di Tino Oldani uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi

La tesi prevalente nei convegni e sui giornaloni dice che il presidente della Bce, Mario Draghi, stia facendo tutto il possibile per aiutare la ripresa, agendo in due direzioni: iniezioni di nuova liquidità da un lato, acquistando dalle banche pacchetti di prestiti alle imprese e di mutui alle famiglie; dall’altro lato pilotando il cambio dell’euro verso un graduale ribasso nei confronti del dollaro, nella speranza che un euro meno forte renda più agevoli le esportazioni dei Paesi dell’eurozona e ne rilanci l’economia.

I tedeschi hanno avuto subito da ridire sul primo punto: Jens Weidman, presidente della Bundesbank, ha votato contro a Francoforte, aggiungendo subito dopo che “simili misure rischiano di allentare gli sforzi dei politici” nelle riforme. Non una parola invece sulla svalutazione dell’euro. Il motivo? Anche se pochi lo ammettono, questo tema è la vera coda di paglia per la Germania, e i suoi falchi vi girano al largo.

L’obiettivo di Draghi, benché non esplicito, sarebbe di pilotare il cambio a quota 1,20 dollari per un euro, dopo che per un paio d’anni ha stazionato intorno a 1,40, toccando un record storico di 1,56. In questi giorni il cambio viaggia intorno a 1,29 – 1,30 dollari per un euro, e se la manovra riuscisse, ne trarrebbero vantaggio i paesi esportatori, tra i quali l’Italia. Applausi a Draghi?

Calma e gesso. Da anni il cambio euro-dollaro sta favorendo un solo Paese in Europa: la Germania. E la favorirà ancora di più se l’euro sarà svalutato a quota 1,20: cambio dal quale anche l’Italia avrebbe sì un beneficio, ma neppure lontanamente paragonabile a quello tedesco. Per dimostrarlo, bastano pochi dati. Secondo le stime prevalenti tra gli esperti, se l’euro fosse una moneta correlata alla sola Germania, il cambio giusto sarebbe di 1,80 dollari per un euro. Mentre se lo si legasse all’economia dell’Italia e dei Paesi del Sud Europa, escludendo Germania e i Paesi nordici, non si andrebbe sopra quota 1,10. Tale scarto va avanti da anni. Questo significa che da molto tempo l’industria e l’export tedeschi stanno godendo di una svalutazione competitiva (e occulta) di almeno 70 centesimi (rispetto all’Italia e al Sud Europa), per ogni operazione di cambio dollaro-euro nelle transazioni export. È stato proprio grazie a questa svalutazione occulta, oltre agli indiscutibili meriti e vantaggi (credito meno costoso, maggiore produttività, qualità dei prodotti), che la bilancia commerciale tedesca ha potuto accumulare un surplus di oltre 200 miliardi di euro, mentre gli altri Paesi dell’eurozona andavano in deficit, e l’Europa in recessione e deflazione.

Una lucida analisi di questa contraddizione interna all’eurozona vien descritta con efficacia dall’economista Antonio Maria Rinaldi (“Europa kaputt: (s)venduti all’euro”; presentazione di Paolo Savona), tra i critici più severi della moneta unica. “L’economia tedesca”, è la sua tesi, “si avvantaggia enormemente dell’appartenenza all’area euro, al punto che negli ultimi anni ha accumulato surplus commerciali con l’estero che coincidono con la somma di tutti i deficit degli altri Paesi dell’eurozona, principalmente per effetto della sottovalutazione della valuta euro rispetto ai fondamentali della sua economia, che altrimenti, in presenza di una valuta autonoma, avrebbe innalzato il suo corso rispetto al dollaro e alle altre divise di riferimento mondiali, e abbassato conseguentemente le altre dell’area europea”.

Il discapito maggiore lo ha avuto l’Italia. Prima dell’introduzione dell’euro, la svalutazione competitiva era una specialità della lira. Con l’ingresso nell’euro tutto ciò è diventato impossibile, e i nostri esportatori ne hanno avuto solo svantaggi. I governanti di allora, Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi, agirono con un misto di faciloneria e di europeismo retorico, e non si accorsero che a pretendere da Helmut Kohl l’ingresso dell’Italia nella moneta , anche se i nostri conti non erano a posto, fu una richiesta esplicita degli industriali tedeschi. Ne ha dato conferma l’ex presidente della Confindustria tedesca, Hans-Olaf Henkel, in un intervista nel 2011 all’Espresso: “L’Italia era per noi tedeschi un concorrente formidabile perché i vostri politici avevano libertà di svalutare la lira. I prodotti del made in Italy risultavano imbattibili. L’euro ha legato le mani alla vostra economia, e da allora l’Italia sprofonda nei debiti. Siete la vera bomba a orologeria per l’Ue”.

Non disse, l’allora capo degli industriali tedeschi, che la Germania, grazie all’euro, poteva finalmente copiare l’Italia con la svalutazione competitiva (e occulta), e mettere così fuori mercato proprio il Made in Italy. Per capirlo c’è voluto del tempo. Ma ora ci sono 200 miliardi di prove. E Draghi, svalutando l’euro, farà l’ennesimo favore ai tedeschi, più che a noi. Per questo sono del tutto insopportabili le lezioni di rigore che i vertici di Berlino, da Angela Merkel a Wolfgang Schauble, pretendono di dare all’Italia. E ancora più insopportabile è la demenziale politica di austerità che, in nome dell’euro (in realtà dell’economia tedesca), ha portato l’Europa alla recessione-deflazione e al disastro economico e sociale.

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