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Tutte le divergenze strategiche tra Iran e Turchia

Che il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif abbia fatto scendere il velivolo militare della Iran Air Force nella città santa di Mashhad per pregare sulla tomba dell’Imam Reza, venerato dagli sciiti e poco tollerato dai sunniti, non deve sorprendere. Mashhad è una città santa nota dai tempi della “via della seta” e prima di rientrare a Teheran è forse stata una mossa che gli ha ingraziato le simpatie del Rahbar Khamenei.

Anche la reazione degli israeliani era attesa. Dichiarandosi estranei all’accordo di Vienna si riconoscono ancora ogni capacità di agire nell’area.
Ora l’attentato quasi probabilmente dell’Isis a Suruc, nel Velayat di Sanliurfa e nel mezzo dell’area popolata dai curdi, ha provocato 32 vittime e molti feriti.

Questo ci permette di riprendere un’analisi già avviata su queste pagine a seguito dell’Accordo 5+1 sul nucleare iraniano in cui avevamo appena abbozzato ai rapporti turco-iraniani, alle possibili conseguenze e alle dinamiche interne nei due grandi attori dell’area, al loro rapporto cittadini-governi-religioni.

Per molti osservatori, la Turchia si destabilizza sempre di più, politicamente ed economicamente: la multivettorialità della sua politica estera negli anni rampanti sta diventando ingovernabile e sta danneggiando la Turchia stessa che non sembra poterla governare. L’attentato è avvenuto in area curda, a ridosso del confine con la Siria e all’indomani del grande successo del Partito Hdp di Demirtash. Secondo alcune ricostruzioni sembra che il Mit, i servizi turchi, fosse al corrente dell’entrata in territorio turco di elementi del Daesh, che non sono stati però fermati (alcuni manifestanti anti governo hanno detto invece che i servizi sapevano e non sono intervenuti). Da Suruc dovevano partire colonne di aiutanti, simpatizzanti curdi socialisti, per la ricostruzione di Kobane e per questo erano state organizzate delle assemblee e dei punti di raccolta e informazione.

La Turchia, già sospettata di compiacenze verso il Daesh (acronimo arabo per identificare l’Isis) se non di aiuti diretti in funzione anti-Assad, non farebbe abbastanza per controllare i flussi di stranieri, non turchi quindi, verso i siti jihadisti di Abu Bakr al-Baghdadi. Non permise a suo tempo a milizie curde di raggiungere Kobane per aiutare nella difesa e se non fosse stato per il massiccio intervento aereo americano essa sarebbe ora in mani Daesh.

Un importante centro di informazioni geopolitiche di Mainz arriva ad affermare che i finanziamenti al Califfato arriverebbero da Arabia Saudita e Qatar, mentre la logistica e gli armamenti sarebbero gestiti dalla Turchia. Tenendosi sul prudente si può quanto meno affermare che i due Stati arabi condividerebbero interessi anti-iraniani con Isis.

Sia il generale Ismail Ka’ani sia il comandante generale dei pasdaran, Muhammad Ali Jafari, hanno ammesso che truppe speciali iraniane hanno ripetutamente compiuto, a partire dal 2012, operazioni sul territorio siriano, eventualmente anche sconfinando in Iraq, evitando con questo che ci fossero molte più vittime civili e contenendo l’espansione del Daesh.
Anche l’intero teorema economico turco ed i suoi differenziati corollari (alludiamo ad esempio al petrolio spot “rimesso” sul mercato dal Daesh che non opera raffinerie proprie), spesso caratterizzati da audaci equilibrismi, sembrano implodere e togliere slancio alle tigri anatoliche ed alle grandi aziende sostenute dal governo dello Akp. Mentre sul versante politico, dopo la battuta di arresto elettorale di giugno, il partito di Erdogan è alla ricerca di nuovi equilibri ed alleanze, che sono negoziati.

Anche l’islamismo dell’Akp è poco identificabile: non è evidentemente quello della Repubblica Islamica dell’Iran, sciita ed alleata della Siria; non è il wahabismo saudita, perché comunque il kemalismo ha lasciato la moderna Turchia con una faccia occidentale e non tribale; non è infine quello “soft” e identitario della tradizione della Transoxiana lungo la ”via della seta” di radici iranico-turche.

La società turca, giovane e istruita, la sua comunità civile, gli intellettuali e gli studenti, i turchi dell’emigrazione, discutono da tempo sul nazionalismo e le storture del Paese: penso alle tematiche degli armeni, alle limitazioni poste alla stampa, ad una certa imposizione dell’Islam, ai temi della democrazia e dell’Europa, al rapporto con i popoli vicini.

Inoltre la società turca è sempre più divisa e frammentata. Oltre alla divisione madre che è quella tra i sostenitori della laicità e del successore del partito di Atatürk, il Chp, e i simpatizzanti del leader carismatico dell’Akp, Erdogan, che è alla guida del Paese dal 2002, si sono create o ampliate altre cesure.
Da un lato i curdi, che sono sempre stati un problema per Ankara sollecitata dalle pressanti richieste dello acquis communautaire, con il successo di Demirtash hanno acquisito nuova assertività e potrebbero rappresentare ora l’ago della bilancia. Una delle “polarità” bloccate della Turchia è la profonda avversione a qualunque creazione di uno Stato curdo, anche nei territori oltre i confini.

Gli eventi di Taksim del 2013, e tutte le manifestazioni a seguito di quelli, hanno creato diffidenza tra gli studenti ed il governo, ma anche all’interno dello Akp ci furono manifestazioni di imbarazzo, se non di dissenso: ricordiamo quelle del ministro Arinc e del presidente Gül, vecchi compagni di Erdogan.

Le forze vicine al partito che fu di Atatürk e di Inönü sono sfiancate e sfiduciate, senza una guida autorevole e carismatica; molti dei seguaci hanno votato per altri partiti per ragioni localistiche o di convenienza.

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