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I bambini fanno bene alla televisione

Di Mihaela Gavrila e Mario Morcellini

La quarta di copertina di uno studio dedicato all’influenza nociva della televisione sulla mente del bambino e sul forte condizionamento dell’intera vita di una persona esposta alla fruizione tv durante l’infanzia riporta affermazioni forti come

“Sophie, 2 anni, guarda la tv 1 ora al giorno. Questo duplica le sue chance di avere disturbi di attenzione quando sarà grande.

Lubin, 3 anni, guarda la tv 2 ore al giorno, triplicando così le sue possibilità di diventare in sovrappeso.

Kevin, 4 anni, guarda programmi per ragazzi violenti come Dragon Ball Z. Questo quadruplica le sue possibilità di avere dei disturbi di comportamento quando inizierà la scuola elementare” (Desmurget, 2012, nostra trad.).

Tale punto di vista estremo trova conforto, sia negli studi neurologici e pediatrici, interessati soprattutto al medium, a prescindere dal contenuto, sia in una certa letteratura mediologica, improntata sull’incidenza della tv nella diffusione dei fenomeni come la violenza, le paure, le insicurezze a vari livelli (vedi, tra gli altri, Brown, 1979; Eron, 1986; Barry, 1993; D’Amato, 1996; Rule & Ferguson, 1999). Il dibattito, iniziato già negli Anni Cinquanta, rimane tuttora aperto e ancora pieno di contraddizioni, almeno nel campo degli studi di sociologia e psicologia della comunicazione.

Per contestualizzare la portata del fenomeno, riportiamo un ulteriore riferimento, questa volta riconducibile a una ricerca statunitense, che documenta che i bambini tra i 0 e i 4 anni trascorrono in media davanti alla tv circa 3-4 ore al giorno, spendendo così il 30-40% del totale tempo di veglia (immaginando che stiano attivi per 10-12 ore giornaliere). Lo studio, pubblicato da Acta Paediatrica, e realizzato da Dimitri Christakis, medico presso il Seattle Children’s Research Institute e docente dell’Università di Washington, arriva alla conclusione che, almeno fino ai 2 anni, un bambino non dovrebbe essere esposto assolutamente alla tv. Nei primi due anni di esistenza, il cervello triplica la sua dimensione, da una media di 333 grammi a 1 kg. L’aumento delle dimensioni è direttamente correlato alla stimolazione esterna e alle prime esperienze di vita. Le immagini luminose in rapida successione stancano il cervello dei figli, agitandoli e generando disagi, conclude Christakis.

Lo studio, che ricostruisce i dati pubblicati in 78 altre ricerche di settore condotti tra il 1983 e il 2008, arriva alla conclusione che  i programmi televisivi, persino quelli cosiddetti educativi, generano problemi di sviluppo e ritardo nell’apprendimento del linguaggio. Il telespettatore-bambino guarda, ascolta, ma non interagisce con altri oratori, non parla, inibendo o ritardando le proprie capacità espressive.

Siamo, dunque, in pieno territorio apocalittico delle ricerche sull’influenza della televisione sullo sviluppo psico-fisico dei bambini. Un territorio particolarmente controverso, che riversa sulla tv le responsabilità di generazioni con problemi di sviluppo intellettuale, risultati scolastici insoddisfacenti, problemi di linguaggio, di attenzione, di immaginazione, di creatività. Tabagismo, violenza, alcolismo, disturbi sessuali, comportamenti alimentari sbagliati, obesità e persino aspettativa di vita sono, dal punto di vista di questi studi, da mettere sul conto di una scorretta dieta televisiva, somministrata in età precoce (Pool, et al, 2000: 293-326).

Tuttavia, questo filone di studi, piuttosto compatto, con una precisa collocazione in ambito medico, privilegia aspetti specifici di natura fisiologica e neurologica, senza un legame diretto con i contenuti dei media e della televisione in particolare.

Per il caso italiano, a queste considerazioni si aggiunge la funzione sociale di socializzazione svolta dalla tv, non a caso considerata parte importante della famiglia e persino “mamma” (la televisione di servizio pubblico italiana è stata a lungo chiamata “Mamma Rai”), quindi quella che dà vita e mantiene solidi i legami intergenerazionali. La televisione, infatti ha fatto da indiscutibile catalizzatore dell’attenzione di un pubblico multigenerazionale (nonni, genitori, figli), svolgendo indiscriminatamente un ruolo di agenzia di informazione e di socializzazione, che passa attraverso i linguaggi e gli stili espressivi dell’informazione e dell’intrattenimento. In contesti di povertà di stimoli culturali e integrata con altri consumi culturali e mediali e con le istituzioni tradizionali, la tv in Italia si è proposta, soprattutto nelle sue prime fasi di sviluppo, quale vero e proprio vettore valoriale (Morcellini, 2004) e strumento di orientamento nella vita quotidiana. Persino la pubblicità, in quell’epoca storica, non ha lasciato troppo spazio alle popolari definizioni apocalittiche come cattiva maestra, serva infedele, ladra di tempo (Popper, 1994; Condry, 1993). Anzi, in piena etica del lavoro e del risparmio (dalla nascita ufficiale della Tv in Italia, nel 1954, fino alla fine degli Anni Settanta), a mandare a letto i figli era sempre l’accomodante baby sitter televisione, con un efficace “Bambini, dopo il Carosello, tutti a dormire!”.

DA “LA TV FA BENE AI BAMBINI” A “I BAMBINI FANNO BENE ALLA TELEVISIONE”

Tuttavia, le ultime stagioni televisive dimostrano che mentre sugli effetti della televisione sui bambini le voci sono in polifonia e persino contrastanti, una certezza si sta affermando: i bambini fanno bene alla televisione.

È un’osservazione anticipata da chi scrive in un volume dedicato alla crisi dalla Tv (Gavrila, 2010, pp. 81-105), individuando nella programmazione per bambini quel contenuto che avrebbe garantito un’interessante svolta produttiva e persino di sopravvivenza alla crisi. A lungo abbiamo  assistito all’impoverimento progressivo dell’offerta televisiva nazionale per bambini, a fronte di una domanda sempre crescente, leggibile con una certa facilità dai dati di ascolto dei canali dedicati e dagli introiti di alcuni prodotti (nella maggior parte esteri) per bambini e ragazzi, che hanno registrato persino una maggior amplificazione del  gradimento (e dei ricavi)  attraverso  merchandising e vendite collaterali (vedi, ad esempio il pionieristico caso delle Winx, prodotto multipiattaforma dell’italiana Rainbow).

Proviamo a esplorare, sinteticamente, il territorio della programmazione per bambini, così come si presenta nell’Italia del terzo millennio.

Con la diffusione della Tv satellitare, in Italia si apre davanti all’universo giovanile un nuovo panorama televisivo. Si è passati da una limitata programmazione ad hoc dedicata ai minori, attraverso i soli tre canali mainstream (RaiDue, RaiTre e Italia1) e incastrata entro le logiche a volte troppo rigide del palinsesto, a un fiorire di programmi e, soprattutto, di canali espressamente pensati per questo target. Un’offerta che apre la stagione dell’abbondanza, attraverso una pluralità di canali digitali tematici (più di 30, tra digitale terrestre e satellitare free e pay) spesso distinti per fasce di età, che ha provocato un graduale trasferimento di contatti dalla Tv generalista a quella satellitare, e negli ultimi tempi, sulla spinta dello switch off dell’analogico, anche di quella digitale terrestre. Il successo della programmazione per bambini e ragazzi si evince in modo sorprendente dalla graduatoria dei canali più visti proprio sulle piattaforme digitali, satellitare e terrestre, attestando ancor una volta la scarsa lungimiranza dei principali broadcaster, consapevoli solo in parte dell’importanza in termini sociali, culturali e commerciali di un target come quello dei bambini. Oltre a garantire una programmazione “protetta”, adatta alle caratteristiche psicofisiche di una fascia di età che ha bisogno di “accompagnamento” cognitivo e attitudinale, soprattutto attraverso proposte di programmazione basate sulla musica, su un linguaggio più pacato e sul gioco, questi canali diventano anche un vero e proprio business per gli editori, riuscendo a convogliare nei propri palinsesti sia i piccoli fruitori sia i loro genitori o nonni. I dati disponibili rendono difficile una precisa ricognizione della fruizione televisiva da parte dell’intera platea che interessa la nostra analisi. Auditel, infatti, considera nelle proprie rilevazioni solo la popolazione a partire dai 4 anni. Basta, tuttavia, osservare l’andamento delle curve di ascolto relative sia alla platea televisiva complessiva, sia a canali come Rai Yoyo e Cartoonito per comprendere quanto l’esposizione alla tv interessi anche le fasce d’età precedenti. Sarebbe sorprendente, altrimenti, la presenza davanti a tale programmazione di adulti con figli tra 0 e 3 anni.

Si tratta di stili di consumo televisivo già documentati dalla ricerca sociale, confermando così il tendenziale utilizzo della tv per fini di socializzazione, soprattutto in alcuni momenti della giornata. La programmazione per bambini, dunque, diventa strategica non solo ai fini di intrattenimento ed educazione delle nuove generazioni, ma anche in quanto familiare, e dunque, particolarmente efficace come mediatore nelle relazioni tra le generazioni.

Già negli anni Novanta, Mario Morcellini dimostrava il carattere socializzante della tv (Morcellini, 1999: 80) e quest’abitudine viene riconfermata dalle varie fonti più recenti analizzate. Oltre ai dati Auditel, anche l’indagine Censis 2011, ripresa nel “Libro Bianco Media e Minori” dell’Agcom (2013), conferma che il 68,9% dei bambini di 4-5 anni guarda la tv prevalentemente in compagnia dei genitori e il 20,1% con i nonni. Solo il 4,7% dei bambini, dimostra la ricerca, viene lasciato solo davanti allo schermo (Censis, 2011). Si conferma, dunque, che la cosiddetta “fruizione congiunta” non è un’infondata astrazione degli studiosi dei media, ma una realtà che testimonia la funzione relazionale che la tv continua a mantenere almeno rispetto alle fasce di età più piccole. Ovviamente, tale orientamento non sfugge ai pubblicitari, ben consapevoli dell’incidenza dei figli piccoli nella scelta e nell’acquisto di prodotti audiovisivi e multimediali, e ancor più non dovrebbero sfuggire ai produttori italiani, che finalmente hanno capito il valore strategico in termini di capitale culturale, sociale ed economico degli investimenti nell’infanzia come strategia di futuro di un Paese.

Quello che non dobbiamo perdere di vista  è che accanto a un necessario accompagnamento da parte degli adulti nel mondo degli schermi (televisivi e non), i bambini hanno bisogno di un ambiente formativo istituzionale consapevole delle opportunità e dei limiti delle tecnologie comunicative.

Mario Morcellini, Prorettore alla comunicazione presso La Sapienza Univeristà di Roma

Mihaela Gavrila, Docente di Culture e industrie della televisione presso La Sapienza Università di Roma

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