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Chi chiederà scusa al cardinale Angelo Bagnasco?

Sento l’obbligo come giornalista di chiedere scusa al cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana e arcivescovo di Genova, per i due giorni di gogna mediatica toccatigli con la denuncia di uno “scandalo” semplicemente falso: quello di un “vitalizio” di 4000 euro mensili per i soli tre anni trascorsi, fra il 2003 e il 2006, come ordinario militare per l’Italia, che equivale, per una legge del 1961, a un generale di Corpo d’Armata.

All’annuncio di questo “scandalo”, diffuso per internet da un signore che assicura di essere vice segretario nazionale di un’associazione chiamata “Democrazia atea” e rilanciato in prima pagina venerdì scorso dal Giornale diretto da Alessandro Sallusti, con tanto di foto di Bagnasco e di titolo non certo onorifico, sono seguite le smentite documentate dell’Inps e dell’interessato. Che percepisce, non certo come ex generale di Corpo d’Armata, una pensione sacerdotale di 450 euro lordi mensili, più un compenso di 1300 euro netti, sempre mensili, che gli spetta come cardinale.

Tutti questi particolari sono stati riferiti domenica dal Giornale della famiglia Berlusconi con un richiamino, in prima pagina, di un articolo sul “caso dopo la nostra denuncia”, nell’ambito delle “polemiche sui vitalizi”.  Non vi ho trovato un solo rigo, una sola parola di scuse. Né al cardinale Bagnasco né ai lettori, colpiti due giorni prima da un annuncio per niente dubitativo dell’ennesimo scandalo aurifero.

Mi addolora riconoscere che in questo strano Paese che è ormai diventato l’Italia noi giornalisti riusciamo a fare concorrenza ai magistrati nell’indifferenza di fronte ai danni che procuriamo ai malcapitati di turno: noi con i titoli e gli articoli e loro con gli avvisi di garanzia e i processi, quando e se vi si arriva.

Ha proprio ragione l’ex presidente della Camera e magistrato Luciano Violante. Che, reduce da un convegno a Capo d’Orlando, è appena tornato a dire, in una intervista al Giornale di Sicilia, che in attesa della separazione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici si potrebbe quanto meno procedere spontaneamente alla separazione delle carriere fra giornalisti e pubblici ministeri.

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Altre scuse forse meriterebbero quelli che Vittorio Feltri ha sbrigativamente definito “coglioni” – scusate la parolaccia – per avere interpretato il suo ritorno alla direzione di Libero Quotidiano, anche per le modalità sbrigative con le quali lo stesso predecessore Maurizio Belpietro ha raccontato di essere stato allontanato dall’editore, come un cambiamento di linea del giornale, in particolare nei riguardi del presidente del Consiglio Matteo Renzi e, soprattutto, del referendum con il quale gli italiani saranno chiamati in ottobre a dire sì o no alla riforma costituzionale. E non solo ad essa, visto che lo stesso Renzi ha annunciato che in caso di sconfitta si ritirerà, aprendo quindi una crisi di governo dagli sviluppi imprevedibili.

Vittorio Feltri ha assicurato che Libero rimane ben saldo nell’area di centrodestra, aggiungendo tuttavia di non sapere più neppure lui dove stia e cosa sia, in fondo, il centrodestra, visto che in effetti si è diviso in tante parti negli ultimi tre anni. Un pezzo, quello di Angelino Alfano, è rimasto nella maggioranza e nel governo, prima di Enrico Letta e poi di Renzi, dopo il passaggio di Silvio Berlusconi all’opposizione a causa della sua decadenza da senatore per effetto di una condanna definitiva per frode fiscale. E ora lo stesso Alfano annuncia al Corriere della Sera di voler lanciare dopo il referendum costituzionale un movimento più largo per contenervi chiunque non voglia né votare per il Pd né lasciarsi guidare nel cosiddetto centrodestra da Matteo Salvini, la cui leadership in quell’area l’ex presidente del Consiglio finge di non temere.

Poi sono usciti dal partito berlusconiano, tornato nel frattempo a chiamarsi Forza Italia da Partito della Libertà come era diventato fondendosi con l’allora Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini, almeno altri due pezzi, guidati uno da Raffaele Fitto e l’altro da Denis Verdini. Il quale ultimo ormai appoggia sistematicamente il governo Renzi e ne sostiene i candidati in alcuni importanti Comuni nelle elezioni amministrative di domenica prossima.

In questa situazione, e vista la sua propensione dichiarata a favore del sì referendario alla riforma costituzionale, perché sempre preferibile allo zero assoluto che verrebbe prodotto dal no, vorrei dire a Vittorio Feltri che è facile essere scambiati per “coglioni” – di nuovo con tante scuse ai lettori – quando si cerca di interpretare i suoi articoli e attacchi, compreso quello appena rivolto alla “zuppa rancida che punta solo a farsi mantenere al calduccio da Arcore”, cioè da Berlusconi. Che intanto, spalleggiato in verità su Libero a titolo strettamente e abitualmente personale da Giampaolo Pansa, scambia per “aspiranti sudditi” di Renzi tutti quelli, a cominciare dai nuovi vertici della Confindustria, che non ne auspicano la bocciatura referendaria, pur non essendo spesso entusiasti della riforma, piena in effetti di limiti e contraddizioni. Ma sono in buona parte gli stessi limiti e le stesse contraddizioni che il presidente di Forza Italia ha contribuito a fare approvare nei primi passaggi parlamentari del disegno di legge, quando reggeva ancora il famoso Patto del Nazareno fra lui e Renzi, rotto con l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale.

Per quanto mi riguarda, mi prendo la parte di “coglione” che mi spetta, ma vorrei che Feltri chiedesse scusa almeno agli altri.

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Un po’ di scuse, infine, meriterebbe la sorella dei Fratelli d’Italia Giorgia Meloni per l’impertinenza con la quale il caustico Antonello Caporale, del Fatto Quotidiano, l’ha costretta a raccontare delle pur modeste concessioni che deve fare al trucco in questa faticosa campagna elettorale, usando “solo l’illuminante per gli occhi”. Che in effetti non passano inosservati, ma che non so fino a che punto potranno aiutarla a diventare sindaco di Roma.

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