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Il “tradimento” di Roberto Benigni

Luigi Di Maio è più popolare di Matteo Renzi, che a sua volta è meno popolare di Luigi De Magistris (sondaggio Demos-Repubblica). Dunque l’italiano medio esiste, non è un’invenzione letteraria, come aveva intuito Ennio Flaiano. Quando dispensa la sua fiducia ai politici egli si dimostra “un perfetto intelligente. Crede molto nelle statistiche e nella pornografia: questa velata di indignazione, quelle per tenersi al corrente. Simula gli interessi dei giovani, adora il pubblico. Il suo contemporaneo ideale è un cretino di ieri coi pregiudizi di domani” (“La solitudine del satiro”, Adelphi, 1996).

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Dopo l’annuncio del suo Sì al referendum, l’epiteto più elegante che Roberto Benigni si è visto affibbiare dai Gran Muftī della Costituzione è stato quello di traditore. Ora, la storia è piena di traditori, per avidità o per amor di patria, per ambizione o per vendetta, per fanatismo o per viltà, per mille ragioni e per mille passioni. Ma chi è il traditore? Che sia chi infrange un giuramento, o incrina il patto che unisce una comunità, pare abbastanza ovvio. Per non parlare degli adulteri nella sfera privata, l’attributo di traditore è stato dato a rivoluzionari e voltagabbana, apostati ed eretici, convertiti e rinnegati, ammutinati e disertori, spie e collaborazionisti, ribelli e terroristi, pentiti e crumiri. Eppure, se osserviamo il tradimento nelle diverse epoche, la percezione che ne hanno avuto contemporanei e posteri è molto più mutevole di quanto non dicano le formalizzazioni giuridiche. Lo dimostra un libro di Marcello Flores (“Traditori. Una storia politica e culturale”, il Mulino, 2015). Di questi tempi, è uno di quei testi che dovrebbero essere letti la sera prima di addormentarsi (anche se so che molti intellettuali engagés preferiscono tenere sul comodino le opere di Kant). Perché, come usa dire, possono portare consiglio per il giorno dopo.

In fondo, da alcuni Benigni è accusato di “prodosia”, un crimine che nell’antica Grecia designava l’accordo con il nemico. Da altri è stato paragonato addirittura a Giuda, l’archetipo del traditore. Nel XXXIV canto dell’Inferno Giuda viene collocato da Dante nella bocca centrale di Lucifero, accanto a Bruto e Cassio. Per il sommo poeta, i tre peggiori traditori della storia avevano frodato i loro benefattori, i loro mentori, i loro amici (singolare contrappasso per chi ha recitato la “Divina Commedia” in mille piazze italiane).

Una delle definizioni più brillanti e argute del tradimento è quella di Charles-Maurice de Talleyrand: “La trahison n’est qu’une question de temps”. “Quando non cospira, Talleyrand intrallazza”, chioserà François-René de Chateaubriand. In effetti, il camaleontico principe di Benevento era passato indenne -e sempre in posizioni di prestigio- dall’Antico Regime alla Rivoluzione, dal Direttorio al Consolato, da Napoleone alla Restaurazione di Luigi XVIII, e poi alla monarchia di Luglio (forse vi ricorda, fatte le debite proporzioni, qualche politico di casa nostra?).

Émile Zola consolida la sua fama internazionale nel caso di tradimento che scuote la Francia sul finire dell’Ottocento. Il suo “J’Accuse”, pubblicato su “L’Aurore” il 13 gennaio 1898, sposta i rapporti di forza tra i sostenitori dell’innocenza di Alfred Dreyfus, il capitano d’artiglieria ebreo accusato tre anni prima di intelligenza con la Germania, e quanti (la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica) sono certi della sua colpevolezza. Nei mesi in cui Dreyfus viene arrestato e processato, “La France juive” di Édouard Drumont (1886) aveva superato le cento ristampe. In un’epoca in cui lo scientismo positivista si mescolava allo spiritismo e al satanismo, Drumont lo utilizza in chiave antigiudaica per spiegare come il tradimento sia connaturato all’ebreo. Per il fondatore della “Libre Parole”, l’ebreo non appartiene al nemico, non appartiene a nessuno: è “errante” e si dissimula nelle pieghe della società. Poiché il tradimento presuppone la rottura di una relazione di fiducia, per Drumont i traditori più veri non sono gli ebrei, i quali sono piuttosto spie che infettano con la loro presenza il corpo sociale, ma i loro amici e sostenitori, i “judaïsant”.

Queste brevissime note vogliono solo significare che, se la battaglia referendaria si trasforma in una vera e propria campagna di odio nei confronti dell’avversario politico (e delle sue idee), il 5 dicembre prossimo non ci saranno né vincitori né vinti, ma solo perdenti.

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