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Il mio ricordo di Piero Melograni

Di Mario Prignano
Melograni

Accade il più delle volte che le celebrazioni in memoria di chi non c’è più si trasformino in eventi apprezzati innanzitutto da chi ha conosciuto e amato la persona che si vuole ricordare. In fondo, è normale che sia così. Per Piero Melograni questa banale osservazione andrebbe rovesciata.

Ricordarlo a cinque anni dalla morte dovrebbe significare, per coloro che in lui hanno avuto un amico illustre o un maestro, impegnarsi a farne vivere l’insegnamento, che solo con un abusato artificio retorico potrebbe definirsi “quanto mai attuale”. Piero non è semplicemente “attuale”, perché Piero appartiene a quella schiera di grandi pensatori il cui approccio alla vita e alle umane avventure non ha tempo. Fosse vissuto all’epoca di Pericle o nel secolo dei Lumi, lo storico Piero Melograni avrebbe predicato la stessa apertura verso la realtà, lo stesso gusto per l’imprevisto, lo stesso rigore nella ricerca e nell’uso delle fonti che nell’ultimo quarto del secolo scorso affascinava i suoi studenti al corso di Storia contemporanea dell’Università di Perugia. Senza peraltro trascurare l’importanza di avere “fantasia”: perché solo chi è dotato di molta fantasia, diceva, sarà in grado di formulare tante ipotesi di ricerca e magari scoprire che, tra le tante, quella che appariva più improbabile o “fantastica” era l’ipotesi giusta.

Sosteneva il grande storico Marc Bloch che la vita è “troppo breve” perché un ricercatore possa comprendere la totalità anche di un singolo aspetto del suo campo di studi. Per spiegare lo stesso concetto, Piero un giorno, a lezione, prese un gessetto e tracciò una lunga riga sulla lavagna. “Immaginate che qui siano descritte tutte le cause della prima guerra mondiale”, disse. Poi, ad un’estremità, disegnò un minuscolo quadratino: “Questo è tutto quello che sanno gli storici delle cause della prima guerra mondiale”. Dentro il quadratino, un puntino quasi invisibile: “E questo è tutto quello che so io”. Non c’era falsa modestia nelle sue parole. Né vi si avvertiva lo stesso tono rammaricato di Bloch. Semplicemente, Piero considerava la realtà come qualcosa che è più grande di noi, qualcosa da interrogare senza sosta e da cui essere continuamente sorpresi. Era questo l’aspetto che più lo affascinava del suo lavoro: l’imprevisto. Ed ecco perché considerava molto più importante saper porre le domande giuste, che affannarsi in risposte a volte appaganti ma sempre, fatalmente, incomplete. In un mondo dove il valore di un intellettuale si misurava (e si misura ancora) nella sua capacità esclusiva di vedere dentro e spiegare la realtà tutta intera, se non anche di pre-vederla, Piero Melograni non poteva che risultare un intellettuale sui generis.

Fu così quando alla fine degli anni Sessanta pubblicò quello che resta il suo libro più famoso, tradotto in un documentario per la televisione e in una mostra di grande successo, la “Storia politica della Grande Guerra” (il titolo non lo ha mai entusiasmato), che, cinquant’anni dopo il 4 novembre, apriva uno squarcio sugli aspetti più controversi del conflitto, sugli errori dei comandi, sugli operai-imboscati, i tradimenti, le contraddizioni. Esattamente quarant’anni fa, il suo “Saggio sui potenti” rivelò ciò che i politici di ogni tempo rifiutano anche solo di prendere in considerazione: che cioè nessuno, se non in minima parte, ha il potere di condizionare la storia di un popolo, la quale, afferma Piero, scorre grazie alla spinta di forze spirituali e ideali che un uomo solo non potrà mai controllare. Lui stesso ebbe modo di sperimentarlo, quando, molti anni dopo, entrò in Parlamento come deputato indipendente eletto nelle liste di Forza Italia: un’esperienza certamente istruttiva e tuttavia, proprio per questo, per lui assolutamente frustrante e deludente.

Aguzzare la vista, tendere i sensi fino a cogliere il soffio eterno della storia anche nelle minime cose: questo era il sogno di Piero. Che, non a caso, spesso iniziava le sue lezioni con un “mi ricordo…”. Grandissimo amante e profondo conoscitore della musica lirica e sinfonica, dopo avere esplorato in lungo e in largo il “secolo breve” (definizione che non condivideva neanche un po’), si tolse la soddisfazione di scorrazzare in pieno Settecento per dedicarsi alla vita e alle spumeggianti avventure di Wolfgang Amadeus Mozart. Con intuizione felicissima, fu lui stesso a coniare il titolo della biografia, “WAM”: non semplicemente l’acronimo del nome del grande compositore austriaco, ma, diceva Piero, “evocazione di un’esistenza intensa, piena di slancio e di calore, come una vampata”. E i suoi occhi, trasparenti e vivacissimi, sembravano aggiungere: proprio come ho sempre desiderato che fosse per me la vita.

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