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Perché Donald Trump non cambierà idea su Gerusalemme

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Non basteranno gli appelli dei leader arabi, né il mancato appoggio di quelli europei e certamente non l’ondata di proteste che negli ultimi giorni ha attraversato il Medio Oriente da una parte all’altra: sul riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele Donald Trump non arretrerà di un centimetro. Il presidente statunitense e la sua squadra sono infatti convinti che quello imboccato la scorsa settimana non sia un vicolo cieco. Un convincimento figlio di una serie di ragionamenti fatti negli ultimi mesi e la cui validità sarà possibile testare solo sul lungo periodo. Saranno settimane di tempesta, ma sin dall’inizio del suo mandato il capo della Casa Bianca ha dimostrato di essere caratterialmente attratto dalle sfide “uno contro tutti”.

Partiamo dall’inizio. L’intenzione di trasferire l’ambasciata statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme era stata annunciata da Trump già in campagna elettorale. I suoi più recenti predecessori avevano fatto lo stesso, senza tuttavia mai dare compimento al proposito. Mantenendo la promessa, Trump è sicuro non solo di riguadagnare consenso tra i suoi elettori – obiettivo primario per tutti i presidenti al primo mandato, soprattutto per quelli il cui consenso è in picchiata (ed è questo il caso) – ma anche di accreditarsi sulla scena internazionale come leader coerente e arcigno negoziatore. Una credibilità della quale Trump ha enormemente bisogno per affrontare altri dossier aperti come la crisi con la Corea del Nord e il braccio di ferro con l’Iran sul nucleare e la cui ricerca sembra aver mosso finora ogni passo dell’attuale amministrazione statunitense in materia di politica estera.

Ancora, in Medio Oriente il presidente statunitense è sicuro di avere le spalle coperte. I suoi principali alleati nella regione sono Israele, Egitto e Arabia Saudita. L’asse con lo Stato ebraico, naturalmente, non potrebbe essere più solido dopo il riconoscimento di Gerusalemme capitale. E d’altronde Trump aveva già dato la misura del rafforzamento del legame tra Stati Uniti e Israele – dopo anni di gelo con Barack Obama alla Casa Bianca – ritirandosi dall’Unesco in aperta protesta contro “le posizioni anti-israliane” dell’agenzia delle Nazioni Unite. Il Cairo e Riad hanno invece condannato la decisione di Trump, ma lo hanno fatto in maniera blanda, sicuramente meno duramente di quanto i palestinesi si sarebbero attesi.

Il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi ha osservato che “non c’è bisogno di complicare le cose in Medio Oriente”, mentre l’Arabia Saudita si è detta “profondamente delusa” dalla mossa di Washington in un comunicato firmato dal suo ambasciatore Khaled bin Salman. Dichiarazioni che da una parte riflettono la straordinaria delicatezza della questione (Al Sisi è garante della riconciliazione tra le fazioni palestinesi; la casa reale saudita aspira al ruolo di guida dell’intera comunità araba sunnita), ma dall’altra sembrano concedere il via libera agli Stati Uniti. Un nulla osta che Trump si è guadagnato in meno di un anno da presidente, assicurando all’Egitto sostegno nella lotta al terrorismo e garantendo all’Arabia Saudita un atteggiamento più ostile verso il rivale Iran.

Infine, Trump ritiene di avere un asso nella manica: il suo piano per la pace già oggetto di tanti incontri – più o meno segreti – con Israele e con i partner arabi sunniti. Un articolo del New York Times ha svelato alcuni dettagli della proposta, che ricalcherebbe l’iniziativa di pace avanzata dall’Arabia Saudita nel 2002 ma vedrebbe il sobborgo di Abu Dhis, alla periferia di Gerusalemme Est, come capitale del nuovo Stato palestinese. I giovani architetti del piano sono il genero di Trump Jared Kushner, e il rampante erede al trono saudita Mohammed bin Salman. Come ipotizzabile, la proposta è stata già appoggiata da Israele ma rigettata senza appello dal presidente palestinese Mahmoud Abbas. Riconoscendo Gerusalemme capitale d’Israele, Trump sta cercando di forzare la mano alla leadership palestinese mettendone a nudo divisioni e isolamento. Se Abbas resisterà alle pressioni e non si deciderà a tornare al tavolo dei negoziati, tuttavia, la scommessa di Trump sarà solo l’ennesima, rischiosa scommessa fallita dagli Stati Uniti in Medio Oriente.

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