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Cortocircuito fra giustizia e comunicazione. Il caso Ikea

Di Ermes Antonucci

Dunque alla fine non era vero. Non era vero che una multinazionale grande, brutta e cattiva (Ikea) aveva violato in Italia i diritti fondamentali di una sua dipendente, impiegata da 17 anni e madre separata di due figli piccoli, licenziandola per non aver rispettato gli inflessibili turni di lavoro che le erano stati imposti e che le impedivano di badare alle esigenze familiari, come accompagnare il figlio disabile a effettuare cure mediche.

Il tribunale di Milano ha infatti respinto il ricorso di Marica Ricutti, la donna impiegata nello stabilimento Ikea di Corsico che, dopo essere stata licenziata nel novembre scorso, aveva fatto causa all’azienda ritenendo il licenziamento discriminatorio, chiedendo il reintegro e il risarcimento del danno. Per il giudice che ha analizzato il ricorso, i comportamenti dell’ex dipendente sono stati “di gravità tale da ledere il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore e consentono l’adozione del provvedimento disciplinare espulsivo”.

In particolare, secondo il giudice è emerso “che la società in occasione delle variazioni dei turni ha cercato di venire incontro alle esigenze della lavoratrice, impostando la turnistica sulla base delle emergenze, chiedendo agli altri coordinatori di rendersi flessibili e accogliendo 15 indicazioni individuate” dalla donna “come assolutamente imprescindibili, su un totale di 17”. Non solo: Ikea ha anche provato “di aver regolarmente concesso negli anni di usufruire permessi ex legge 104 per l’assistenza ai genitori e successivamente al figlio disabile, senza che ciò abbia influito minimamente” sulla carriera della dipendente (che negli anni era arrivata ad assumere la qualifica di coordinatrice di reparto). “Il percorso professionale esclude quindi che Ikea abbia assunto nei confronti” della donna “un atteggiamento discriminatorio”, annota il giudice.

Dall’esame del giudice, piuttosto, emerge che la lavoratrice si è “autodeterminata gli orari di lavoro “senza preavvertite il responsabile” e “in mancanza di una esigenza familiare specifica”. Il legale del colosso svedese dell’arredamento (che in Italia offre lavoro a circa 6.500 persone), Luca Failla, ha sottolineato come il giudice abbia “riconosciuto la gravità dei comportamenti tenuti da Marica Ricutti e, conseguentemente, ha confermato la legittimità della decisione di Ikea di interrompere il rapporto lavorativo”.

Ristabilita la verità in sede giudiziaria, però, alla fine resta sul terreno l’enorme danno di immagine per l’azienda (che per di più ha sempre posto al centro del suo universo valoriale la famiglia, in tutti i suoi aspetti), e l’impressione che in tutti questi mesi la vicenda sia stata esasperata per il semplice gusto di alimentare gli istinti no-global e anti-multinazionali che serpeggiano nel Paese, ad opera di sindacati, rappresentanti politici e media.

Promossi i consulenti legali di Ikea, vanno però bocciati i comunicatori. E’ infatti da sottolineare come una gestione più attenta e precisa della crisi da parte dell’azienda avrebbe probabilmente aiutato a limitare i danni collaterali di un “caso” poi rivelatosi infondato. Troppo timido, in questo senso, è parso l’atteggiamento di Ikea nelle 48 ore successive allo scoppiare della crisi, quelle che notoriamente (almeno agli esperti del settore) sono le più importanti per la risoluzione di un’emergenza. Mentre la polemica montava, spingendo i colleghi della donna a scioperare e le testate di tutto il mondo a riprendere la notizia, l’azienda emanava un brevissimo comunicato di difesa, che secondo alcuni giornali (come Repubblica) prefigurava anche “un’apertura” di non si sa quale genere: “Ikea sta svolgendo tutti gli approfondimenti utili a chiarire compiutamente gli sviluppi della vicenda”.

Una motivazione articolata della conclusione del rapporto di lavoro con la dipendente giungeva da Ikea solo in tarda serata del secondo giorno (quando ormai alcuni giornali avevano già chiuso le loro edizioni, tant’è che non vi è traccia in rassegna stampa). L’azienda spiegava di aver fatto di tutto per venire incontro alle esigenze della donna, precisando che i comportamenti dell’ormai ex impiegata erano diventati non accettabili, finendo per compromettere la relazione di fiducia. Una motivazione che ha convinto il giudice e che probabilmente avrebbe persuaso anche larga parte dell’opinione pubblica se fosse stata veicolata efficacemente, sui giusti canali. Ormai, però, era troppo tardi.

 Ermes Antonucci, giornalista esperto in comunicazione di crisi giudiziaria (The Skill)

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