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Se a decidere cosa mangiare non è più il consumatore

Di Francesco Bruno

Scienza e diritto hanno oggi nel settore alimentare un terreno di dialogo privilegiato nelle regole sui prodotti funzionali (probiotici, nutraceutici, ecc.) e le relative indicazioni nutrizionali e sulla salute (i cosiddetti claim salutistici o health claim). Dialogo che, fino ad oggi, aveva avuto a oggetto prevalentemente – se non esclusivamente – l’ingegneria genetica, con continui confronti che coinvolgevano – e tuttora coinvolgono – filosofia, religione ed ecologia. L’European food information council ha definito “funzionali” gli alimenti che per qualche aspetto particolare della composizione (indotto direttamente o indirettamente dall’uomo) apportano un beneficio aggiuntivo all’organismo, oltre il semplice apporto di nutrienti.

Il problema è che sovente tali proprietà salutistiche o addirittura parafarmaceutiche sono presentate al consumatore senza una reale e approfondita disamina scientifica, che invece è propria dei farmaci. Si tratta di un tema che coinvolge quel difficile equilibrio tra imprese (che investono in ricerca per migliorare la qualità, anche funzionale alla salute, dei propri alimenti), i “valutatori scientifici” di tali prodotti come riconosciuti dalla legge (nel nostro caso europea) e il consumatore (il quale, comunque, resta il supremo valutatore e arbitro del mercato).

Il quadro normativo di riferimento va trovato – in Italia – nel rapporto tra il codice del consumo e il regolamento comunitario 1924/2006. È attraverso tale disciplina che si dovrebbe garantire la (maggiore) qualità dei prodotti alimentari funzionali. Il provvedimento europeo definisce le modalità con cui è possibile utilizzare un health claim, ossia attraverso una complessa procedura autorizzatoria che coinvolge soggetti nazionali e comunitari, prima tra tutti la European food safety autority (Efsa), con sede a Parma. Essa deve accertarsi che la formulazione proposta per l’indicazione sulla salute sia basata su dati scientifici e, nella logica della comunicazione del prodotto sul mercato e sulla possibilità (imprescindibile) che i cittadini siano posti in condizione di effettuare scelte consapevoli sulla propria alimentazione, si esprime sulla formulazione della proposta per l’indicazione sulla salute, valutando se è comprensibile e significativa per il consumatore medio.

Poi, nel caso in cui circolassero nel mercato alimenti tecnologicamente avanzati con pubblicizzate proprietà salutistiche o nutrizionali inesistenti o inefficaci, il codice del consumo attribuisce all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) strumenti atti a contenere e sanzionare le pratiche scorrette e ingannevoli per il consumatore. Non sono stati pochi, in questi ultimi anni, gli interventi dell’Agcm su prodotti funzionali distorsivi, che direttamente o indirettamente facevano credere al consumatore di avere funzioni e proprietà in realtà inesistenti, così rafforzando le tesi dubitative sul ruolo attuale della normativa europea sulla sicurezza alimentare. Come appare chiaro, la struttura di preservazione della salute dei cittadini comunitari si incentra unicamente sui pareri dell’Efsa.

L’arbitro sembrerebbe non essere più il consumatore, ma l’autorità tecnica, che tutto filtra, tutto discerne. Questa potrebbe essere un’esigenza delle società dei consumi di massa, che necessita di scelte celeri, neutre (sotto il profilo istituzionale), soprattutto strategicamente indirizzate a evolvere il mercato dei prodotti. Ma persiste il dubbio che nel governo (iper)efficiente delle (eventuali) emergenze alimentari si siano trascurati o sottovalutati alcuni aspetti.

Come autorevolmente affermato, “la produzione di massa di beni alimentari e la necessità di tutelare il consumatore fanno assumere all’elemento tecnico-scientifico un ruolo centrale e diffusamente invasivo nel sistema della sicurezza alimentare”, al punto che si può riconoscere il passaggio dalla rilevanza del dato tecnico, rappresentato dalla “natura delle cose”, al primato della tecnica, la quale, peraltro, per sua natura, “ignora gli effetti asimmetrici che, sul piano economico e sociale, da essa possono derivare, ancorché in nome del (giusto) valore da attribuire alla sicurezza alimentare medesima” (Francesco Adornato, “Sicurezza alimentare e autorità indipendenti, in agricoltura, istituzioni, mercati”, 2004). Così, rischiando di nuocere fortemente a una visione del settore alimentare che vede la qualità del cibo legata al territorio, alla tradizione e alle materie prime coltivate (o allevate) in climi e habitat che fanno del comparto agroalimentare una eccellenza assoluta del made in Italy.

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