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Genova, perché nazionalizzare non è certo la soluzione giusta

Son sono passate che poche ore dal tragico evento di Genova ed è già iniziato il balletto delle responsabilità. Il rischio grosso è che anche questa volta, passato il momento della commozione e della solidarietà, la catastrofe annunciata, a quanto pare, non faccia più notizia. E che, nel contempo, la giustizia si impaludi , come succede spesso in Italia, in un limbo ove tutti hanno un po’ di responsabilità e nessuno ne ha piena; e la politica si dimentichi delle solenne promesse fatte in queste ore e, senza attivare quei processi atti a evitare future tragedie, si concentri di nuovo sul presente più immediato.

“L’Italia che crolla” è stata, in queste ore, la metafora più usata. E, pur nella sua banalità, essa sembra cogliere un aspetto non irrilevante di una tragedia di un paese abbandonato e che non crede più in sé stesso. A crollare è, nella fattispecie, un ponte degli anni Sessanta, espressione e simbolo di quel “miracolo economico” (e non solo) di cui ancora oggi andiamo giustamente orgogliosi. Se vogliamo continuare nella metafora, potremmo dire che già quella Italia, nel pieno del suo fulgore, aveva in sé i germi della decadenza attuale: sin dai primi anni dopo la costruzione sembra che il ponte di Morandi avesse destato sospetti e qualche preoccupazione.

La crisi politica e sociale odierna non nasce, voglio dire, dal nulla, è figlia di ieri, di un sistema che aveva già allora in sé quelle contraddizioni che sono poi esplose. Tanto che a me sembra particolarmente surreale che, nel criticare l’attuale classe politica “populista”, ci si richiami all’autorità di persone e di forze politiche che quel sistema malato, irrisolto, rappresentavano in vario grado. La crisi della classe dirigente italiana, che fra clientelismi e ideologismi ha tradito la propria missione, è epocale. Quella élite ha lasciato in eredità un deserto. Il risultato è che una nuova classe dirigente non si è formata e chi è oggi legittimamente al potere spesso sembra brancolare nel buio: i nuovi governanti sono l’espressione del no degli italiani, che va rispettato come va rispettata la democrazia, ma oltre il no si vede bene che essi non hanno per ora quella visione che contraddistingue un blocco di potere sociale-culturale-politico che si sostituisce al precedente. Tant’ è! In ogni caso, mi sembra che, pur con i suoi limiti, il governo, in queste prime ore, si stia muovendo bene. Prima di tutto, scindendendo le responsabilità politiche da quelle giudiziarie, e poi dando con immediatezza una risposta al grido di dolore e rabbia degli italiani. La revoca del contratto alla società di gestione, insieme alla dimissione dei vertici, in attesa dell’accertamento delle responsabilità penali, è il minimo che ci si può aspettare dalla politica in una situazione del genere, come prima risposta.

Accadrebbe, credo, in ogni paese civile. E fa specie che chi predica a ogni piè sospinto l’autonomia della politica dalla magistratura, chieda in queste ore che la politica si adegui ad essa e ai suoi tempi. Una politica silente tradirebbe essa sì gli italiani e li allontanerebbe ancor più dallo Stato e dalle istituzioni. Non si può però da liberali non considerare anche un’altra questione, che si connette alla prima: l’atipico e svantaggioso contratto che, a quanto è emerso, regola i rapporti fra lo Stato e il concessionario, colpevolizza in maniera inequivocabile la classe politica che lo ha messo in essere. E mostra nella sua effettualità il carattere assolutamente non liberale di una “privatizzazione alle vongole” che, senza una gara vera e trasparente, crea un monopolio e che non dà nessun vantaggio al consumatore. La nazionalizzazione non è certo la soluzione giusta, come dal governo qualcuno continua a dire, ma una cattiva e non trasparente privatizzazione non è che l’altra faccia dello statalismo predatorio che urta la sensibilità di noi liberali.

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