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Vi spiego la strategia (giusta) del governo tra Libia, Egitto e Libano. Parla il generale Bertolini

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Dopo il riconoscimento del presidente Trump al premier Conte nel recente viaggio a Washington, l’Italia può davvero riuscire a conquistare un ruolo di leadership nel Mediterraneo e nelle questioni che riguardano il nord Africa, a partire dalla Libia. Certo, ciò richiede di riorientare le Forze, non solo militari, ma anche diplomatiche e commerciali. Per questo, i numerosi viaggi dei membri del governo (l’ultimo dei quali del ministro della Difesa Elisabetta Trenta in Libano) sono un segnale importante. Parola del generale Marco Bertolini, già comandante del Comando operativo di vertice interforze (Coi), del Comando interforze per le operazioni delle Forze speciali (Cofs) e della Brigata paracadutisti Folgore. A lui abbiamo chiesto anche perché il Libano resta importante per l’Italia e che effetti potrebbe avere un inasprimento dei rapporti tra Iran e Stati Uniti.

Generale, dopo le visite in Tunisia e Libia, il ministro Trenta è andata in Libano. Salvini è stato in Egitto e a Tripoli, mentre Moavero anche a Tunisi. Il governo sembra procedere in modo organico e coordinato sul Medio Oriente e nord Africa. Che ne pensa?

Sicuramente si nota un attivismo per ciò che concerne la presenza italiana in queste aree, che sono critiche per i nostri interessi. Tanto in Libia, quanto nel Vicino oriente, assistiamo a un’attività dell’esecutivo che prima non si notava. In sostanza, sembra che il governo abbia all’ordine del giorno soprattutto il problema delle migrazioni che transitano dalla Libia. Eppure, il fatto che membri dell’esecutivo si siano fatti notare anche in altri Paesi, dall’Egitto al Libano, è centrale, e dimostra una certa attenzione a queste aree.

Per quanto riguarda il Libano, la missione italiana è quella su sui il governo è stato più netto: la presenza dei nostri militari non si tocca. Perché?

Intanto perché il Libano si trova nell’area più immediata di nostro interesse strategico. Poi, perché non ci sono dubbi sul fatto che l’Italia risenta delle turbolenze che si originano nel Paese e che risentirebbe pesantemente di un’eventuale espansione della crisi siriana, in cui il Libano è coinvolti per diversi motivi.

Quali?

Prima di tutto perché i due Paesi confinano. Poi, perché il Libano ha delle sue forze (quelle di Hezbollah) che stanno combattendo in Siria. Dunque, un eventuale esito della guerra in Siria a sfavore di Assad avrebbe sicuramente delle conseguenze. Il governo italiano sembra aver messo a fuoco questo aspetto. Ed è essenziale riuscire a mantenere una presenza politica definita nell’area.

L’Italia è tornata inoltre a comandare la missione Onu nel Paese. Che segnale è?

Siamo riusciti ad avere nuovamente il comando della missione Unifil in Libano. Con il generale Stefano Del Col, l’Italia torna ad essere responsabile dell’intera missione, potendo contare su una tradizione di comando non indifferenti che, in passato, ha visto nella stessa posizione i generali Claudio Graziano (attuale capo di Stato maggiore della Difesa, ndr), Paolo Serra e Luciano Portolano. Ciò sta a confermare anche la grande attenzione che la nuova dirigenza libanese riserva nei confronti dell’Italia. Ciò è importante pure per quanto riguarda la parte israeliana. Così, anche se non ci fosse stata la visita del ministro Trenta, il comando di Unifil già dimostra che il Paese ha messo a fuoco il suo interesse: essere fattivamente presente in un’area in cui si stanno difendendo interessi da cui non può tirarsi indietro.

Ma la situazione in Libano potrebbe risentire dell’inasprimento dei rapporti tra Teheran e Washington, anche considerando le nuove sanzioni?

Non c’è dubbio. In Libano, la componente sciita che fa capo ad Amal ed Hezbollah è collegata direttamente all’Iran, e non rappresenta una componente di poco conto. Basti pensare che Hezbollah è la forza militare più importante del Paese, anche più dell’Esercito libanese. Inevitabilmente, un inasprimento dei rapporti tra Iran e Stati Uniti li coinvolgerebbe. D’altronde, Hezbollah non rappresenta solo una forza militare, ma anche una forza economica e sociale non indifferente, e questo anche in virtù del supporto di cui gode da Teheran. Se questo venisse a mancare a causa di una crisi o di un isolamento dell’Iran, le conseguenze si farebbero sicuramente sentire. Un isolamento di questo genere è già in atto in Siria. La porzione del Paese che è controllata da Assad è circondata da una cintura che la isola dall’Iran, poiché la parte ad est dell’Eufrate è sotto il controllo dei curdi e degli americani proprio per evitare un collegamento diretto. Se Hezbollah, forza invisa e temuta dagli israeliani, subisse un isolamento di questo tipo, risulterebbe sicuramente più vulnerabile, e una possibile azione contro di lei sarebbe meno difficile di quanto è adesso. Ad ogni modo, bisognerà vedere quale atteggiamento adotterà Trump.

Che intende?

Il presidente americano ci ha riservato molte sorprese. Durante la campagna elettorale sosteneva una linea di politica estera americana in Medio Oriente che poi è sembrato voler contraddire con diversi proponimenti e azioni successive. A parole, è sempre stato estremamente determinato a contrastare l’intervento russo, il regime di Assad e così via. Nei fatti però, l’intervento americano è stato coordinato con i russi, e anche quanto è stato più deciso, non ha mai calcato la mano per arrivare a estreme conseguenze. Piuttosto, è ormai risaputo che, per quanto che riguarda la Siria, Trump e Putin abbiano una sorta di “gentlemen’s agreement” per cui il presidente americano cerca di non recare danni che siano eccessivi ad Assad, alleato del leader russo. Ora, dunque, bisognerà vedere quanto il presidente americano vorrà dar seguito alle minacce espresse nei confronti dell’Iran. Di recente, ha persino auspicato un incontro e non è da escludere che potrebbe ripetere il modello utilizzato per la Corea del Nord. Il leader nordcoreano era stato dipinto come un pazzo, per poi finire con lo stringerci un’intesa. Chissà che non succeda lo stesso anche con l’Iran. Di sicuro, un compromesso sarebbe molto importante per la pace nell’area e anche per l’Italia, che per Teheran è un importante partner commerciale.

Nel frattempo il ministro Moavero Milanesi è stato di recente in Egitto, seguendo le orme di Matteo Salvini e precedendo probabilmente una futura visita della Trenta. Il Cairo è un passaggio obbligato per stabilizzare la Libia?

Non c’è ombra di dubbio. L’Egitto è molto influente sulla questione libica, in special modo sull’area della Cirenaica. Il governo egiziano non fa mistero di appoggiare il generale Haftar, e questo non è un dettaglio considerando che da lui non si può prescindete. Si dovrà infatti trovare un compromesso che lo accontenti, anche perché un Haftar sconfitto non conviene neanche a Serraj. Ma, per poter arrivare al generale, Il Cairo è indispensabile. Inoltre, il Paese è alle prese con una battaglia durissima nel Sinai, dove è militarmente impegnato in maniera pesante contro le formazioni del jihadismo fondamentalista. Non bisogna poi dimenticare che l’Egitto è il Paese più importante dell’area dal punto di vista della popolazione (la maggior parte degli arabi sono egiziani), che è lo Stato più moderno delle sponda sud del Mediterraneo. Non c’è infine da trascurare l’aspetto energetico, per cui bisogna fare i conti con i giacimenti scoperti dall’Eni. Per ora, sembra essere la Turchia di Erdogan a vincere il braccio di ferro per i giacimenti nel mare di Cipro, e l’Egitto è sicuramente una parte in causa con cui bisogna discutere. È dunque fondamentale esserci tornati a parlare. Per un lungo periodo avevamo chiuso i rapporti per una questione sicuramente importante, ma per cui abbiamo pagato uno scotto pesante, tra l’altro in un momento in cui l’Egitto ha avuto più di qualche problema da affrontare. Aver ripreso un dialogo aperto e sereno è importante per tutti.

Tra l’altro, l’Italia può ora contare sul riconoscimento della leadership in nord Africa da parte degli Stati Uniti, avvenuta durante il recente incontro tra Trump e il premier Conte.

Sicuramente quello degli Stati Uniti è stato un segnale di attenzione non indifferente. Credo che Trump abbia riconosciuto quello che dovrebbe essere il ruolo dell’Italia in virtù della sua posizione delle sue dimensioni. Il nostro non è un Paese piccolo; è uno Stato da 60 milioni di abitanti, ricco nonostante gli anni di crisi, centrale in un’area su cui anche gli Usa hanno interessi, e ora dotato di un governo che non fa mistero di essere allineato su molti aspetti della politica di Trump, a differenza di Macron con cui il presidente americano ha trovato accordo per l’attacco in Siria per poi dimostrarsi distante su tanti altri argomenti.

Ma l’Italia è in grado di gestire la leadership dell’area?

Direi di sì, anche se da un punto di vista complessivo ci sono delle difficoltà. Essere incisivi nel Mediterraneo vuol dire avere una forza (anche militare, ma non solo) credibile. Eppure, le nostre Forze armate pagano alla crisi economica un tributo molto alto. Sono professionali e ben preparate, ma sicuramente non nel loro momento migliore. In sintesi, l’Italia può svolgere un ruolo importante, ma deve cambiare l’attenzione per gli asset nazionali che possono operare nell’area. Ciò riguarda non solo le Forze armate, ma anche la diplomazia, l’economia e il commercio. Tutto deve essere orientato più decisamente sul Mediterraneo.

Nell’incontro a Washington è stata annunciata anche una Cabina di regia Italia-Usa per la Libia. Come si concretizzerà operativamente?

Già esistono varie iniziative di gestione interalleata della crisi in Libia. Si tratta di una cabina di regia militare in cui, oltre all’Italia, ci sono Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania, tutti con interessi abbastanza diversi dai nostri. Una Cabina di regia Italia-Usa potrebbe tradursi prima di tutto in uno strumento per la condivisione delle informazioni. Gli Stati Uniti, grazie agli strumenti tecnologici di cui dispongono, hanno una disponibilità informativa sulle situazioni in Libia che potrebbero mettere a disposizione. Poi, con le informazioni recepite, si dovrà decidere cosa fare. A livello di ministeri degli Esteri o di Difesa si potrebbe insediare una sala operativa con specialisti che trattino queste questioni, orientando così le scelte diplomatiche e militari. E con “militari” intendo le attività di supporto alle Forze armate libiche che potrebbero originarsi oltre quelle solamente italiane, le quali si basano su risorse inevitabilmente limitate. Con il contributo degli Stati Uniti sarebbero sicuramente più significative. Difatti, Italia e Usa hanno la comune necessità di consolidare la posizione di Fayez al Serraj e della componente libica riconosciuta dalle Nazioni Uniti. Per Trump, tale condivisione politica con il governo italiano lascia spazio a interventi e misure probabilmente nuovi.

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