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La trasformazione da impero in regno

Valuto qui il decennio post 11/9 in relazione alla ristrutturazione dell’impero americano, oggetto di primario interesse per l’Italia visto che l’alleanza con l’America e l’inclusione nel suo perimetro strategico ne è il massimo fattore di moltiplicazione di potenza nazionale.
Nei mesi precedenti l’11 settembre 2001 l’Amministrazione Bush, da poco in carica, stava perseguendo un progetto di rielaborazione dell’impero in base alla Dottrina dell’interesse nazionale. In sintesi, l’idea era che l’estensione globale della responsabilità statunitense fosse insostenibile per i costi, inapplicabile e ormai ingiustificata vista la fine della Guerra fredda. Difficile dire se la Dottrina dell’interesse nazionale fosse una reazione più alla genericità, e quindi debolezza, della politica clintoniana o più all’eccesso di estensione della responsabilità economica e militare. L’idea non era di ridurre la forza dell’impero, ma di mantenerla riducendo i costi di presidio. Lo scenario creatosi dopo l’attacco al territorio statunitense costrinse l’Amministrazione Bush, invece, ad un ingaggio di controllo militare totale del pianeta e ad una strategia di presidio diretto dei suoi luoghi più critici.
 
L’analisi strategica prevalente in America dopo l’attacco fu che era necessaria una risposta talmente forte da dissuadere per sempre chiunque volesse sfidare la superiorità strategica statunitense con mezzi asimmetrici a farlo (Guerra al terrore). Ciò portò all’invasione dell’Afghanistan, nel 2001, alla costruzione di funzioni di presidio indiretto in almeno 65 nazioni e ad un presidio diretto delle nazioni chiave dell’area islamica sia per controllarle (mettendo sul libro paga le Forze armate di Pakistan, Egitto, Tunisia, ecc.) sia per rassicurarle (Arabia Saudita, Giordania, ecc.). L’invasione dell’Iraq, 2003, fu motivata dalla necessità percepita di portare la guerra in una nazione islamica per costringere gli jihadisti a concentrare i loro sforzi lì, togliendo risorse alla strategia d’attacco contro il territorio americano, e sconfiggerli in modo evidente. In termini tecnici, l’invasione dell’Iraq fu la scelta conseguente a quella di una strategia di trasformazione del conflitto da asimmetrico in simmetrico con la volontà di dimostrare che era possibile innescare nel mondo islamico un modello di tipo occidentale. Fu, infatti, una risposta talmente forte da sfiorare il neocolonialismo.
 
Ma l’ambizione fu eccessiva in relazione ai mezzi ed il perseguire una condizione di vittoria così impegnativa mise talmente sotto stress la società americana sia sul piano economico sia su quello dei costi umani da togliere consenso a questa formula di impero. Paradossalmente, l’Amministrazione Obama sta applicando la formula di Bush, mentre Bush applicò quella globalista di Clinton, pur in modo più specifico. Infatti sotto la guida di Obama l’impero sta cercando di ritirarsi dall’eccesso di estensione e di intensità del presidio di sicurezza dove lo portò Bush. Obama ha tentato di sperimentare la dissuasione a basso costo spostando la guerra dal metodo di invasione con grandi apparati all’attacco selettivo contro i vertici decisionali del nemico. Ha, cioè, tentato di rendere simmetrica la guerra al terrore con metodi di terrorismo.
 
Chi scrive è d’accordo con questa scelta del pensiero strategico di sinistra pur coltivando quello di destra: il terrorista va sconfitto diventando più terrorista di lui. Ma la vera dissuasione per la vera sicurezza sistemica comunque implica il presidio diretto, la conquista via grandi apparati. Pertanto è un errore connettere l’uccisione dei capi di al Qaeda con un buon motivo per ritirare gli apparati. Sia il metodo di Bush sia quello di Obama, pur con notevoli successi parziali il primo e quello dell’uccisione di Osama bin Laden il secondo, mostrano che l’America non ce la può più fare da sola a restare un impero. Infatti durante l’Amministrazione Obama, segnata da una depressione economica, l’America sta trasformandosi da impero in regno. Un regno che quando è in difficoltà non ha esitazioni nel dare priorità al proprio interesse nazionale anche a scapito dei regni alleati. La storia mostra che tutti gli imperi crollano o per costi eccessivi di mantenimento delle colonie e/o per implosione delle élites. L’impero americano non sta crollando, ma sta ritirandosi dopo aver tentato, per contrastare il terrore, l’ultima grande espansione perché non ne regge i costi. L’osservazione della ritirata mostra che questa non può essere calibrata. Per esempio, l’applicazione del concetto Bush originario da parte di Obama nel caso libico – vi diamo un aiuto di retrovia poi voi europei fate il lavoro – ha portato ad un pasticcio. Un impero non riesce a ritirarsi: o resta o crolla e fa crollare gli alleati.
 
La conclusione, paradossale, ma da tenere realisticamente in conto, è che l’attacco jihadista ha avuto una sorta di vittoria indiretta nel 2001. Ha forzato l’impero a fare una cosa che non poteva fare. Al Qaeda sparirà, ma il segnale al mondo è che l’impero americano non ci potrà più essere. È un segnale preoccupante per l’Italia in quanto dipendente dalla forza dell’impero americano per bilanciare la pressione dominatrice di Francia e Germania e ottenere un Mediterraneo, nostro spazio economico vitale, con sicurezza almeno decente. C’è una soluzione dopo aver appreso queste lezioni dall’esperienza osservata? C’è, pensando alla Cina come futuro nemico e alla necessità di mantenere l’ordine nel mercato globale per difendere la ricchezza nazionale: l’occidente ha bisogno di un impero con raggio globale, l’America non ce la fa più da sola a reggerlo, quindi bisogna convincere l’America stessa, noi stessi ed altre democrazie alleate a ricostruire l’impero con una formula di grande alleanza (vedi www.lagrandealleanza.eu) che condivida meglio i costi e lo renda sostenibile ed efficace. O così o l’occidente diverrà un insieme di piccoli regni, America compresa, fagocitati da nuovi poteri.
 
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