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Il land grabbing parla arabo

Negli ultimi anni sono cresciuti i timori dei governi di Paesi arabi legati all’approvvigionamento alimentare, soprattutto, a causa della crescita dei prezzi dei prodotti agricoli. Nel 2011, Khalil Abu Afifa, esponente della Lega Araba, ha dichiarato che, negli anni a venire, i Paesi membri non avranno le risorse necessarie a rispondere al fabbisogno alimentare nazionale, un’ovvia minaccia alla loro stabilità interna. Soluzione largamente condivisa al problema, che riecheggia nei consessi ufficiali come sulla stampa, è l’intensificazione della cooperazione inter-araba al fine di raggiungere l’autosufficienza agroalimentare eliminando, così, le difficoltà connesse alle importazioni e alle oscillazioni dei prezzi dei prodotti agricoli. La scarsità d’acqua nella regione mediorientale e nordafricana, tuttavia, rappresenta un ostacolo insormontabile al raggiungimento di tale autosufficienza.
L’unica risposta possibile sembrano essere gli investimenti in Paesi che dispongono di vasti terreni agricoli e cospicue risorse idriche ma non dei capitali necessari al loro sfruttamento. A riscuotere il maggiore interesse sono le superfici coltivabili del Pakistan e di Stati africani come Tanzania, Kenya, Uganda e, in particolare, il Sudan che, fin dagli anni ‘70, è stato un riferimento costante nella pianificazione delle politiche alimentari degli Stati arabi. In un articolo del 1976, John Waterbury, infatti, riportava voci dell’epoca che comparavano il Sudan al Brasile o alle distese del Mississippi nell’ovest degli Stati Uniti: una mitica nuova frontiera per il mondo arabo in un momento in cui soprattutto i Paesi del Golfo divenivano sempre più dipendenti dalle importazioni di alimenti. In realtà, la netta dipendenza dall’esterno dello stesso Sudan in campo alimentare, ha reso impraticabile la sua trasformazione in una sorta di granaio arabo.
L’Arabia Saudita, il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti e la Libia, grazie alle loro rendite petrolifere, ma anche l’Egitto sono tra i maggiori investitori. L’Egitto, tuttavia, costituisce un caso particolare: prima dell’inizio di quella che è stata ribattezzata Primavera araba, il precedente governo guidato da Mubarak non solo ha compiuto vari investimenti, ad esempio in Tanzania e Sudan, ma ha anche fatto concessioni di terreni agricoli a investitori sauditi e asiatici.
Il Paese che accoglie i maggiori flussi di capitali arabi è il Pakistan, seguito proprio dal Sudan. Nel caso dei Paesi del Golfo e della Libia, gli accordi di leasing sono basati su una logica di scambio di cibo contro petrolio: un approccio molto vantaggioso per il Sudan soprattutto ora che, a causa della secessione del sud, ha perso la sua principale fonte di approvvigionamento petrolifero. All’inizio di questo anno, Mustafa Abdul Jalil, presidente del Comitato nazionale transitorio libico, ha dichiarato alla Reuters che la Libia intensificherà i suoi investimenti nel vicino africano, nell’ambito di un più ampio piano di revisione delle politiche di investimento del precedente regime dato che “razionalità e giustizia” impongono di indirizzare i propri investimenti agricoli in regioni vicine piuttosto che in aree lontane come l’Asia centro-orientale. In conseguenza molti progetti saranno portati a conclusione.
Per l’Arabia Saudita, invece, il leasing di terreni agricoli in Stati stranieri ha rappresentato un’alternativa ad avveniristici piani di sviluppo agricolo intensivo che, iniziati negli anni ‘80, si prefiggevano l’obiettivo della piena autosufficienza alimentare. Il risultato è stato in parte raggiunto ma a costo di ingenti investimenti e sovvenzionamenti pubblici e di elevate pressioni sulle magre risorse idriche disponibili. Nel corso dei primi dodici anni, si è assistito a una crescita sostenuta delle superfici coltivate, passate da 67mila a 924mila ettari ma, in tempi recenti, la dispendiosità dell’opera ha indotto il governo ad abbandonare il programma: nel 2008, si è dato avvio a una sua graduale riduzione, pari al 12% annuo, fino al totale esaurimento, previsto nel 2016. Il regno arabo ha intrapreso piani di investimento importanti non solo in Sudan e Pakistan, dove opera anche attraverso la Banca islamica di sviluppo e la Camera islamica di commercio, ma anche in Etiopia dove centrale è il ruolo di un magnate saudo-etiope ‘Ali al-Amoudi.
La Fao, dopo un primo rapporto della Ong Grain, ha invitato alla cautela nei giudizi su queste operazioni sottolineando, da un alto, il divario tra dichiarazioni ufficiali e reale attuazione dei progetti annunciati, dall’altro, la loro potenzialità nel riportare capitali in regioni, come il Corno d’Africa, dove la forte instabilità interna ha determinato una netta riduzione degli investimenti diretti esteri. Resta, tuttavia, la rischiosità di questo tipo di operazioni, non solo legata alla loro sostenibilità ambientale ma anche alle incognite di natura politica: i contratti di leasing, infatti, divengono spesso attuabili solo attraverso l’esproprio di terreni che i governi centrali ritengono sotto-sfruttati da pratiche agricole tradizionali. In contesti come il Sudan o l’Etiopia, entrano in ballo questioni critiche, quali l’accesso alla terra e alle sue risorse che sono state e possono essere causa di conflitti. A ciò si aggiunga la difficoltà a legittimare l’esportazione di beni agricoli prodotti in grande quantità in Paesi affamati come quelli africani appunto. In Kenya, Tanzania ma nello stesso Sudan e in Etiopia si sono già verificate in passato sollevazioni e proteste al momento del trasferimento, così come da contratto, delle produzioni cerealicole verso i Paesi del Golfo.
Soluzioni possibili al problema risiedono certamente nell’intensificazione della cooperazione inter-araba attraverso una migliore riorganizzazione produttiva e distribuzione di risorse. Ma si tratta di ipotesi in uno scenario in evoluzione ricco di incognite, sul piano locale e internazionale.
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