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Diplomazia e difesa contro gli hacker cinesi

Il “la” l’ha dato il New York Times. Nel giro di poche ore è stato  il Wall Street Journal a denunciare intrusioni imputate a pirati informatici cinesi. Lo scopo? Tenere d’occhio chi copre l’informazione sulla Cina. Nei mesi precedenti anche l’agenzia Bloomberg aveva subito attacchi e, secondo quanto riporta lo stesso NYT, la società per la sicurezza Mandiant ha compilato una lista di giornalisti finiti nel mirino dei pirati cinesi. Ricollegarli al governo o all’esercito non è tuttavia automatico.

Certo i pirati informatici che hanno attaccato la “vecchia signora in grigio”, come è chiamato il Times, hanno agito seguendo orari d’ufficio: dalle otto del mattino fino a sera. Il modo di agire è inoltre simile a quello usato per altri attacchi, contro dissidenti, contro il governo tibetano in esilio, contro nemici. Il patriottismo d’altronde è una caratteristica degli hacker cinesi sin dai primi attacchi alla fine degli anni Novanta contro obiettivi indonesiani.

Nota Adam Segal su Foreing Affairs che se, non ispirate, le intrusioni verso obiettivi come quelli statunitensi sono quanto meno tollerate a Pechino.

Come scriveva ieri lo stesso New York Times, l’arma informatica non è una prerogativa cinese, ma è usata anche da Paesi come Stati Uniti e Israele. La stessa Cina ha subito nel 2011 almeno 500mila attacchi in gran parte partiti dagli Usa. Le intrusioni e i furti di dati sono prima di tutto una minaccia alla proprietà intellettuale, scrive Segal.

La soluzione spesso evocata per porre un freno a minacce di questo tipo è che Pechino e Washington si siedano a negoziare una qualche forma di deterrenza essendo i loro interessi allineati, almeno nel lungo termine. La visione dei due Paesi su internet è tuttavia divergente. Washington, assecondando anche gli interessi dei colossi del settore, la maggior parte dei quali statunitensi, pensa a un ruolo più defilato dello Stato. Il Grande Firewall è invece il simbolo dell’internet cinese che tuttavia ha superato i 500 milioni di utenti. E mentre i primi parlano di cybersicurezza, i cinesi parlano di sicurezza dell’informazione.

Inoltre, scrive Segal, l’ossessione cinese per l’innovazione made in China spiega quella che descrive come l’opposizione a standard globali che Pechino considera dominati dagli Usa e il tentativo di promuoverne di propri, mentre le società cinesi leader nel settore promuovo l’interoperabilità. L’azione diplomatica potrebbe non essere sufficiente a rompere lo stallo. Gli Stati Uniti devono pertanto puntare sulla difesa: lavorare assieme alle società private per la sicurezza, portare la questione davanti all’Organizzazione mondiale del commercio denunciando la violazione della proprietà intellettuale, fino ad arrivare a imporre sanzioni. Una linea dura al momento difficile sia sul piano legale sia strategico, quindi chiudere la porta al dialogo è escluso.

Evan Osnos del New Yorker ha invece puntato l’attenzione su un altro aspetto. L’attacco contro il New YorkTimes, indicato da molti come una risposta all’inchiesta sulle fortune del primo ministro Wen Jiabao, è coinciso temporalmente con la campagna anticorruzione del nuovo leader cinese Xi Jinping. Apparentemente la dirigenza cinese e il quotidiano newyorkese mirano allo stesso obiettivo: colpire la corruzione. Le ultime vicende sembrano però smentire le dichiarazioni della dirigenza, o forse sono le vecchie abitudini dure a morire.

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