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Il crollo dell’università italiana nel mondo

Commento pubblicato su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza, Bresciaoggi

È la più antica Università d’Europa. Gloriosa e universale, ma è finita soltanto al posto numero 150 della classifica nel mondo. Dove, a fare la parte del leone con una cinquantina di presenze, sono le istituzioni americane, e si poteva immaginarlo. Inimmaginabile, invece, è che la “nostra” Università di Bologna sia così indietro, pur essendo la migliore fra le italiane prese in considerazione, secondo i parametri di una ricerca internazionale promossa nel lontano Giappone. È un Paese nel quale l’amore per la nostra cultura, dall’opera lirica alla storia dell’arte (della Primavera di Botticelli esposta a Tokio anni fa, ancora oggi si parla), è enorme, a prova del tempo.

Dunque, se anche agli occhi di un popolo che stravede per noi risultiamo poco attrattivi proprio nel campo della formazione e del sapere, forse qualche ragione ci sarà. La principale risiede nell’assoluta mancanza di visione e di programmazione che, da troppi anni, un governo dopo l’altro hanno dedicato al sistema scolastico in Italia, del quale l’Università rappresenta il suggello nazionale e la vetrina internazionale. Nel primo caso e nonostante la cronica assenza di tutto (dai laboratori degni alla carta igienica nei bagni, e non è una frase fatta), la trasmissione della conoscenza ancora funziona. E funziona a un livello alto, come testimoniano, paradossalmente, i tanti cervelli che fuggono e che si affermano ovunque nel mondo.

Ma se la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento tiene, in barba a un sistema generale dove il criterio del merito è mortificato da pratiche borboniche e baronali, il profilo internazionale dell’Università italiana ne risente. Abbiamo tra le più basse frequenze di studenti stranieri, compensate, si fa per dire, dalla più vecchia classe docente per età. Mancano, quindi, il confronto e il ricambio, che sono il sale e il pepe del far bene anche nell’istruzione.

E poi con una riforma dopo l’altra i ministri si sono limitati a cambiare, quasi sempre peggiorandola, la pura e semplice forma organizzativa: l’ordinamento del cosiddetto “tre più due” ne è prova lampante. Lo sanno tutti che dopo tre anni è difficile considerarsi buoni ingegneri, senza ulteriore specialistica. E così torniamo ai cinque anni di una volta. Forma, ecco, non sostanza. Ma all’estero cercano la sostanza.

Purtroppo la politica vive di facciata anche all’Università. Invece che pochi e ben valorizzati poli di eccellenza, pullulano sedi universitarie dappertutto. Di nuovo regna la logica clientelare della politica, invece che lo stimolo per i bravi professori e i valenti studenti che ancora non si sono arresi.

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