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C’è un solo vincitore nel gioco del petrolio

Leggo in clamoroso ritardo e con un pizzico di benevola invidia le dichiarazioni del presidente americano che annuncia, nel suo discorso all’Unione, che non solo gli Usa si sono lasciati alle spalle la recessione, ma che dinanzi a loro splende radioso il sol dell’avvenire, dove i redditi e le disuguaglianza cresceranno in ragione inversamente proporzionale e finalmente le donne che lavorano verranno pagate quanto gli uomini. Per un attimo vorrei essere un cittadino americano.

Poi mi ricordo che i politici usano la retorica di mestiere, almeno quanto gli economisti dicono di non farlo. E sarà per questo che è nata l’economia politica.

Obama, infatti, sorvola con signorilità sulle ragioni della presunta uscita Usa dalla recessione, omettendo anche di ricordare che ha avuto, e avrà ancor più in futuro, un costo. Non per gli Usa magari, evidentemente memori di quanto ebbe a dire uno dei loro magnati. Ossia che ciò che andava bene lui sarebbe andato bene per gli altri. Piaccia o no.

Abbandono queste riflessioni perché nel frattempo il Fmi ha rilasciato l’aggiornamento del suo World economic outlook, che come succede ormai da anni rivede al ribasso le previsioni di crescita. Lo scorro rapidamente e vi trovo due considerazioni assai utili.

La prima ammette che il calo dei corsi petroliferi avrà un effetto positivo sulla crescita globale, che poi è il mantra che recitano un po’ in tutte le lingue i vari banchieri centrali. Aggiungendo però che tali effetti positivi “è previsto siano più che compensati dai fattori negativi, incluso la debolezza degli investimenti”.

La seconda nota che “da settembre il costo del petrolio è diminuito del 55%”. Per darvi un’idea molto generale, se consideriamo il corso attuale, intorno ai 50 dollari, mediando il valore Brent/Wti, vuol dire che in pochi mesi il barile ha perso quasi 60 dollari. Ciò vuol dire che seguendo la recente stima di un banchiere della Fed, c’è un potenziale trasferimento di ricchezza da circa 2.000 miliardi di dollari dai paesi produttori a quelli importatori.

Pure se il petrolio si stabilizzasse intorno ai 60 dollari, come stimano alcuni analisti, ciò equivarrebbe comunque a un notevole trasferimento di potere d’acquisto dai paesi produttori a quelli importatori, che sono i primi sconfitti dal crollo dei corsi petroliferi e quelli che adesso prima e più degli altri devono fare i conti con le turbolenze finanziarie determinate da questo scossone.

Tale trasferimento di ricchezza, tuttavia, è quello che fa sorridere gli ottimisti: i paesi consumatori avranno la possibilità di fare investimenti meno costosi, potendo peraltro i consumatori disporre di più risorse, costando meno la bolletta energetica. Sicché il combinato disposto potrebbe dare un contributo alla crescita (più investimenti e più consumi).

Senonché il Fmi ricorda che c’è anche il lato oscuro della forza.

Il calo del petrolio, paradossalmente, può indebolire ulteriormente i già deboli investimenti globali, che risentono del peso negativo delle aspettative. Queste ultime, in barba ai ragionamenti “petroliferi” puntano ancora al ribasso, proprio come le previsioni di crescita.

E poi c’è la questione dei paesi produttori che, per il principio dei vasi comunicanti, disporranno di meno risorse, visto il trasferimento in corso di ricchezza verso i consumatori. E non conosco nessuna teoria economica che ipotizzi che un dollaro speso in Arabia Saudita abbia effetti moltiplicativi minori di uno speso negli Stati Uniti.

Per farvela semplice: l’aumento della capacità di spesa dei consumatori, ammesso che venga utilizzato, viene annullato dalla diminuzione della capacità di spesa dei produttori, alcuni dei quali, è bene ricordarlo, soffrono di qualche altro problemino. Pensate solo alla Russia, per la quale il Fmi ha ipotizzato per il 2015 un calo del Pil del 3%.

E poi c’è il rischio da interessi. Molti paesi emergenti si sono indebitati in dollari, contando sui loro ricavi petroliferi e sul costo ridotto degli interessi. Il venir meno dei ricavi petroliferi e l’avvio della stretta monetaria della Fed cambia sostanzialmente lo stato della sostenibilità di questi debiti. “Le economia emergenti sono particolarmente esposte”, osserva il Fmi. Ma questo lo sapevamo già.

E sorvolo sulla circostanza che il calo petrolifero ha effetti deflazionari, come stiamo vedendo in Europa, con chiare conseguenza sulla sostenibilità dei bilanci, privati e pubblici.

Ciò spiega perché, a livello globale, il calo del petrolio non basta a rilanciare la crescita, che infatti è prevista al ribasso per quasi tutti i paesi, con la vistosa eccezione degli Usa, come dice Obama.

“La ripresa negli Usa è più forte di quanto previsto – conferma il Fmi – mentre le performance economiche di altri grandi paesi – il più degno di nota è il Giappone – sono cadute più di quanto previsto”. Alla faccia del BoJ, viene da dire.

Quindi, parafrasando il Fmi, potremmo dire che la crescita globale è prevista al ribasso, tranne che per gli Usa. Dove peraltro il dollaro si è apprezzato del 6% in termini reali rispetto ad ottobre 2014, al contrario di euro e yen, svalutati del 2% e dell’8%.

Rimane la domanda: perché o produttori di petrolio, a cominciare dall’Opec, hanno deciso di lasciare inalterata la produzione?

La risposta si trova fuori dalla logica dell’economia?

Forse la considerazione che il gioco del petrolio per ora veda solo un vincitore è un indizio.

Ma non ditelo a Obama.

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