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La corsa all’oro blu

Da sempre le infrastrutture idriche sono proprietà pubblica, normalmente dei comuni, e non sono alienabili per legge. Quindi nel nostro Paese (così come in tutti i Paesi del mondo al netto di Gran Bretagna e Cile) in nessuna legge passata o attuale (decreto Ronchi) è messa in discussione la “proprietà” pubblica del bene acqua e delle infrastrutture relative al servizio.
Per questo, la discussione acqua pubblica o privata è, in merito al tema “proprietà”, un falso problema.
Diverso è il tema della proprietà delle società a cui è delegato il compito di gestire il servizio. Storicamente in Italia, la gestione del servizio idrico è stata affidata ad azienda comunali prima e ad azienda speciali poi (queste ultime trasformatesi in spa e in taluni casi poi quotate in borsa). A seguito dell’emanazione della legge Galli (legge di settore ormai vecchia di quindici anni) il servizio idrico è divenuto Servizio Idrico Integrato (SII) ovvero non si parla più di gestione della sola acqua ma anche della gestione delle acque reflue (ovvero collettamento e depurazione delle acque dopo il loro utilizzo antropico). Quindi la discussione è relativa ad un servizio ambientale a tutto tondo che include lo smaltimento dei reflui (rifiuti liquidi) e che necessita di risorse finanziarie e competenze complesse e strutturate. Secondo legge, la gestione del SII doveva essere effettuata in maniera autonoma dagli altri servizi (non si può e non si deve sovvenzionare il SII con la gestione di altri servizi) per raggiungere connotati industriali in termini di efficacia ed efficienza e doveva essere organizzata in territori più ampi per il superamento della frammentazione gestionale consentendo la solidarietà tra le comunità in termini di condivisione delle risorse disponibili (risorse naturali ed economiche) attraverso la condivisione del carico tariffario.
I magri risultati prodotti dalla riforma dei servizi idrici nei suoi primi quindici anni di attuazione impongono certamente una riflessione ed alcune energiche correzioni se si intende dotare il Paese di infrastrutture adeguate e dare vita ad una solida industria del settore. Sono di tutta evidenza i limiti e le insufficienze dell’esperienza concreta: si pensi che solo poco più di un terzo della popolazione ha visto concretamente avviato il servizio idrico integrato; dei 68 affidamenti, di cui circa trenta attraverso contratti di gestione con società quotate o a capitale misto pubblico-privato, solo cinque sono stati finanziati dal sistema bancario ed è stato realizzato appena il 50% degli investimenti previsti. Tuttavia non tutti gli obiettivi di riforma contenuti nella legge Galli sono andati dispersi nel pantano dei localismi e delle resistenze burocratiche tipiche dell’italico gattopardismo. Seppure solo in parte, si sono realizzate nuove ed inedite forme di cooperazione tra comuni, sono nate grandi nuove ed efficienti imprese ad economia mista (l´esperienza del cosiddetto modello Toscana rappresenta sicuramente un successo nel quadro nazionale in termini di investimenti realizzati e servizio reso), esperienze si sono contaminate e rafforzate e si è costruita la conoscenza attraverso la commissione di vigilanza ed i suoi rapporti annuali. Inoltre, anche tra i cittadini comincia a crescere la sensibilità sul tema che, malgrado spesso strumentalizzata, rappresenta comunque un primo passo verso la necessaria acquisizione di un ruolo importante per lo sviluppo equilibrato del settore. Quindi la discussione in merito al tema “proprietà del gestore” è un falso problema, infatti, già prima del decreto Ronchi si sono sviluppate importanti ed efficienti esperienze di partenariato pubblico privato che hanno dato incoraggianti risultati di efficienza ed efficacia.
 
 
Last but not the least
 
In Italia, sia ben chiaro, il SII è un settore regolato nel quale è un soggetto pubblico a stabilire le tariffe in base ai piani di investimento ed in base ad un metodo normalizzato definito con decreto ministeriale.
 
Quindi la discussione acqua pubblica o privata è, in merito al tema “tariffa”, un falso problema. La tariffa non dipende dalle caratteristiche del gestore (pubblico, privato o misto) ma dalle necessità infrastrutturali del territorio e ovviamente dalla densità abitativa.
 
 
Qual è dunque il problema?
 
Nell’acqua tutto è fermo da anni e le infrastrutture italiane sono le peggiori tra quelle dei Paesi europei, fatta eccezione per quelle Greche. Le stime più attendibili (e conservative) ci dicono che servono almeno quattro miliardi di euro ogni anno per rimodernarle e portarle in efficienza nei prossimi vent’anni. Possono farlo le gracili e frammentarie imprese pubbliche, ostaggio della cronica mancanza di risorse degli enti locali e, dopo l’ultima crisi economica, impossibilitate più che mai all’accesso al credito? La storia dei decenni scorsi ci dice di no e senza appello. C’è da chiedersi in quale misura il decreto Ronchi che riforma la gestione dei servizi pubblici locali cambierà le cose e se, in definitiva, i servizi prestati ai cittadini nel futuro saranno migliori di quelli offerti oggi. In questo senso sarebbe utile mantenere un approccio concreto rifuggendo da ogni pregiudizio culturale, politico ed ideologico. Come detto il quadro di partenza è preoccupante ed è necessario che un moderno Paese lo affronti con serietà e rigore. Nel settore dell’acqua l’Italia, da troppo tempo, sta consumando il capitale ambientale e infrastrutturale ipotecando anche le generazioni future. Il decreto Ronchi, in definitiva, scommette sul motore dell’impresa ed impone un passo indietro nella gestione ai comuni e alla gestione pubblica. La speranza è di costruire, finalmente, una industrializzazione di questo settore: affidarlo cioè a soggetti, perlomeno misti, che lo gestiscano con competenza sapendo che con le tariffe che pagano gli utenti si devono ripagare tutti i costi a cominciare da quelli di investimento e parimenti rompere il conflitto di interessi tra controllore pubblico e controllato pubblico che aveva caratterizzato l’esperienza passata. Spesso, nel passato, malgrado regole che lo imponevano, quando si è trattato d’incrementare le tariffe o di riorganizzare l’azienda per efficentarla si è finito per rinviare i problemi alle generazioni future comprimendo la spesa e non investendo. La tariffa dell’acqua in Italia, infatti, è tra le più basse d’Europa (se si confrontano le tariffe delle capitali europee quella di Roma è la più bassa – incluse quella di Varsavia, di Budapest, di Bucarest e di Istanbul)  proprio perché non si ha il coraggio di far pagare gli investimenti necessari e la conseguenza è, che al contrario, siamo tra i primi nello sperperare la risorse (perdite idriche) e ad inquinare i fiumi e i mari. In realtà manca anche la cultura a pagare e a far pagare. Vi è una resistenza tutta italiota a spiegare che  i servizi li pagano i cittadini (con le tariffe e/o la fiscalità diretta) e che al grido “meno tasse e tariffe per tutti” non si realizzano infrastrutture e non si genera utile lavoro.
 
Si deve fare qualcosa
 
Non si può più rinviare e forse con i vincoli stringenti dell’impresa privata e dell’interesse economico ci si potrà far carico di realizzare programmi di investimento in orizzonti temporali di decenni al riparo dal pendolarismo e dall’incertezza dei cicli politici. Il provvedimento Ronchi impone che i comuni diminuiscano le proprie partecipazioni sotto il 30% nelle grandi imprese quotate come Acea, Hera ed A2A e che in quelle interamente pubbliche sia ceduto almeno il 40% ad un partner industriale responsabile della conduzione dell’azienda. Si spera che così il settore possa divenire appetibile per quegli investitori interessati a rendimenti stabili, seppur ridotti, e che così si possa innescare un ciclo finanziario che si traduca in concreti investimenti, in un servizio migliore e in tanti lavori pubblici utili, immediatamente cantierabili e di immediato impatto sull’occupazione ed il lavoro indotto.Resta da rafforzare il sistema di regolazione – quelli che fissano le tariffe e che dettano le regole del gioco – che garantisca sia gli utenti da un atteggiamento predatorio sia chi investe in modo che possa recuperare i propri capitali con un giusto rendimento. Occorre dare nuova certezza alla regolazione. Quella che c’è oggi è attuata dalle autorità di ambito locali, permette originali interpretazioni che la rendono disomogenea e incerta. Il meccanismo regolatorio non garantisce, in definitiva, che quanto pianificato si realizzi: che alla tariffa corrispondano gli investimenti previsti e che il gestore ne possa ricavare un utile proporzionale agli investimenti realizzati ed a quella di generare ulteriori efficienze rispetto alle soglie ipotizzate dal regolatore. Sarebbe un bene se il dibattito facesse un salto di qualità, non più sterili e spesso demagogiche discussioni acqua pubblica-acqua privata ma ci si concentrasse su tre punti. Il primo,  di assicurare al sistema una capacità pubblica di compiere le scelte strategiche della pianificazione in maniera efficace e tempestiva. Secondo, di assicurare un sistema di regolazione pubblica autorevole e capace.  E infine, terzo e ultimo, assicurare lo sviluppo di una grande industria italiana dell’acqua capace di vincere le sfide tecnologiche, finanziarie ed economiche che la attendono e di ridare l’appellativo “bel” al nostro Paese.
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