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L’Europa liquida

La crisi greca ha evidenziato non soltanto l’incompiutezza e conseguente fragilità della moneta unica, ma anche le faglie geopolitiche che ancora contraddistinguono l’Europa: quella fra nord e sud, fra “Club Med” e Centroeuropa, oltre a quella est-ovest, acuite ambedue dall’allargamento a Ventisette. La necessità di incasellare concettualmente questi o quei Paesi risponde forse alla necessità di semplificare certi fenomeni, nel tentativo di spiegare quel che accade in un mondo diventato “liquido”. Con il grave rischio, però, di perdere i necessari punti di riferimento essenziali.
La camicia di forza del “patto di stabilità” (con i suoi tetti del 3 % del debito pubblico e del 60 % del relativo stock) avrebbe dovuto indurre gli Stati aderenti all’euro ad attenersi ad un maggior rigore finanziario, ed all’elaborazione di politiche economiche e fiscali coordinate se non proprio uniche. Ciò non è avvenuto, con effetti anche politici che sono ormai evidenti all’uomo della strada, non soltanto in Grecia. Il pacchetto di salvataggio faticosamente messo insieme, per quanto inedito e non previsto dalle norme comunitarie vigenti, non rappresenta un gesto di magnanimità, bensì una necessaria solidarietà giacché, sulla piazza di Atene, le stesse banche francesi e tedesche sono le più esposte. L’Europa unita, in altre parole, esiste già, in un mondo inesorabilmente globalizzato che la preme da ogni parte.
I riflessi difensivi abbondano: gli istinti nazionalistici si diffondono di pari passo con i particolarismi locali; i partiti politici hanno ovunque perso la presa sull’elettorato; le formazioni di ispirazione xenofoba sono in ascesa; in un’apparente “medievalizzazione” dei rapporti intraeuropei. Anche se in forme diverse, le recenti elezioni lo dimostrano, in Ungheria, nel Regno Unito e nel Land del Nord Reno-Vesfalia. Contrariamente ai diffusi timori di una incipiente disgregazione dell’impresa integrativa europea, si potrebbe anche argomentare che si tratta piuttosto della fisiologica sistemazione di quell’ordine di tipo “imperiale” che due secoli di autodeterminazioni esasperate hanno devastato e che il dissolvimento dell’Unione Sovietica e della Federazione Jugoslava sembrano aver finalmente esaurito. Per l’Europa, specie sotto la spinta di una globalizzazione dovuta all’emersione di tanti altri Stati, le ragioni della reintegrazione sono diventate ancor più impellenti.
Nulla di patologico vi è nella riscoperta di identità, valori, interessi nazionali diversificati, purché si riconosca che il loro soddisfacimento passa ormai necessariamente attraverso una maggiore condivisione delle rispettive responsabilità. L’asserita maggior fragilità delle nazioni mediterranee corrisponde palesemente alla diversità del loro contratto sociale rispetto a quello che contraddistingue le nazioni di stampo anglosassone, ma fa astrazione della raggiunta condivisione dei rispettivi interessi fondamentali (qual è, per dirne una, lo stato di salute della sterlina rimasta fuori dall’euro?). Gli avvenimenti quotidiani dimostrano non già la disgregazione dell’impresa integrativa europea, bensì semmai la sua incompiutezza, evidenziando quel che rimane da fare a livello nazionale, non quel che non può funzionare nel contesto unitario. Non di euroscetticismo si deve parlare bensì semmai di un ormai palese autolesionistico euro-lassismo.
È come se l’Europa dovesse riscoprire la propria vocazione, e dotarsi di una più esplicita comune leadership. Sfatando anche un altro falso ragionamento, quello che imputa all’allargamento a Ventisette l’inizio della fine dell’originario progetto. Bisognerebbe invece argomentare che l’espandersi dell’Ue in una nuova Europa rappresenta il culmine dell’aspirazione politica dei padri fondatori. E che l’economia, dopo aver fatto da mosca cocchiera, deve ora corrispondere alla sopraggiunta superiore realtà politica internazionale. In modo diverso, ovviamente, dal percorso sinora seguito: con una struttura che consenta aggregazioni differenziate, velocità variabili. Ne parlavano già nel 1994, anche allora in Germania, Lamers e Schaeuble (quest’ultimo è d’altronde ancora sulla breccia, proprio come ministro delle Finanze del governo Merkel), ipotizzando un nucleo ristretto di Paesi trainanti. Una necessità che il Trattato di Lisbona ha infatti previsto anche in campo politico-militare, con le “cooperazioni strutturate rafforzate”. Per ritrovare, appunto, e riaffermare quel senso di direzione, quella vocazione politica che da troppo tempo sembra aver smarrito.
La speculazione finanziaria aggredisce l’euro, mentre gli investimenti strutturali tardano a rinsanguarla. Indispensabile si è rivelata l’adozione di più rigorosi meccanismi comuni di controllo e gestione delle crisi. La fiducia nell’Unione europea dipende però anche dalla complessiva sua visibilità internazionale, dalla sua comprovata capacità di incidere sui sopraggiunti grandi temi dell’umanità. È ormai evidente come, separatamente, né l’Unione né i singoli Stati che la compongono dispongano più di una autorità sufficiente a renderli interlocutori globali credibili ed affidabili. La credibilità d’assieme non dipende soltanto dall’economia, sulla quale Bruxelles ha sinora prevalentemente contato per le sue diversificate politiche di partenariato. Clima, accesso alle materie prime, energia, terrorismo, sicurezza militare, disarmo nucleare e convenzionale, immigrazione, Iran, Cina, convergono nel pretendere un più incisivo contributo europeo. Con l’indispensabile prioritario coinvolgimento della Russia, anche ad evitare che l’Europa ripiombi nei condizionamenti bipolari di un rinnovato “reset” esclusivamente russo-americano.
Argomenti tutti rispetto ai quali il Regno Unito, rimasto a lungo ostentatamente ai margini dell’operato europeo nella fedeltà ad un sempre meno sostenibile divide et impera, può fornire un determinante valore aggiunto. Le elezioni britanniche hanno rimescolato le carte. Nei programmi elettorali dei tre partiti in lizza, l’Europa è stata trattata con il consueto sdegnoso distacco, necessario per raccogliere il massimo dei consensi possibili. Ma la nuova équipe dirigente dovrà comunque tener conto del fatto che è dell’Europa politica, piuttosto che di quella economica, che si tratta essenzialmente oggi. In altre parole, che l’involucro di una più esplicita politica estera e di sicurezza comune dell’Unione rappresenta ormai l’indispensabile baluardo dell’acquis economico comune. Il contributo britannico alla proiezione politica dell’Unione, anche in virtù del suo status di membro permanente del Consiglio di sicurezza, è diventato pertanto più rilevante della sua partecipazione all’euro o all’area Schengen. Ciò dovrebbe solleticare l’orgoglio di Albione, ma anche convenire all’affievolito tandem franco-tedesco, e conseguentemente alla capacità di resistenza dell’Europa agli attacchi tendenti a saggiarne la coesione d’assieme.
Se non si può completare il progetto istituzionale europeo con il Regno Unito, non si può nemmeno progredire senza di esso. Appare ormai evidente e pertanto necessario, nell’Europa a Ventisette, scindere la sua configurazione politica da quella economica. Prescindere, in altre parole, dal perseguimento di una ideale Europa potenza che rischia di risolversi in un ruggito del topo, e distinguere l’Europa-spazio economico e sociale dall’Europa-potere, entità politica più coerentemente propositiva ed influente. È in tal senso che dovrebbero appunto operare le nuove strutture istituzionali e procedure decisionali definite nel Trattato di Lisbona, per recuperare la coesione interna necessaria per corrispondere a quella “domanda d’Europa” che le circostanze globali continuano a sollecitare.
Considerazioni tutte che dovrebbero riguardare maggiormente un Paese come l’Italia tuttora alla ricerca della propria identità nella diversità delle sue situazioni regionali, e che non può più affidare passivamente la sua coesione interna alle esaurite automatiche solidarietà euro-atlantiche. Priva com’è di un forte istinto nazionale (le polemiche sulle celebrazioni dell’Unità lo confermano), Roma avrebbe oggi le carte in regola per impegnarsi credibilmente nell’incipiente multilateralismo globale, avvalendosi più propositivamente della sua presenza nei consessi ristretti, dal G8 al G20, per far valere la propria disinteressata mediazione in zone a lei contigue tuttora mal cicatrizzate e alla cui stabilizzazione è più direttamente interessata. Invece di continuare nel piccolo cabotaggio della promozione di rapporti economici bilaterali con interlocutori postisi ai margini della collaborazione internazionale. Più che mai, è nel fare l’Europa, e nel proiettarla nel Mediterraneo, nei Balcani, nella fascia di Stati che ancora divide l’Europa dalla Russia, che si potrà proseguire nell’impresa incompiuta del fare l’Italia.
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