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I due veri nemici tedeschi per l’Italia

Per Roma le vere insidie di Berlino sono quelle di cui nessuno parla: gli indignados tedeschi e la linea dura della Bundesbank.

Queste elezioni tedesche, viste dal Bel Paese, hanno poco di solenne e ancora meno di cupamente wagneriano. Nonostante la tentazione irresistibile di proiettare su Frau Merkel e sul suo avversario l’intero repertorio di stereotipi sulla Germania di cui è popolato il nostro immaginario comune, la campagna elettorale tedesca si è prestata poco o nulla a questo esercizio. Toni pacati, corposi dossier sviscerati in profondità, e un dibattito televisivo che non è nemmeno lontanamente simile agli exploit chiassosi cui siamo abituati a casa nostra. Su tutto, una spessa coltre di omertà per tutto quello che riguarda l’Europa. All’indomani del faccia a faccia catodico tra Merkel e Steinbrueck, la seriosa stampa tedesca pareva più genuinamente interessata alla mise della cancelliera o alla sua presunta passione per le zuppe fatte in casa che al destino dell’Europa. Difficilmente sapremo se questo silenzio – quasi mai violato – sia il frutto di un accordo tra la CDU e la SPD e i blocchi di potere che li sostengono, o se invece ci sia un temporaneo disinteresse per un dibattito fattosi sempre più logoro.

Il fattore AfD

L’impressione è che Merkel e Steinbrueck preferiscano non parlare di Europa per evitare di evocare la AfD, il partitucolo euroscettico che negli ultimi giorni ha guadagnato sempre più terreno nei sondaggi. E se la Merkel è alta nel proprio gradimento popolare – ai tedeschi è sempre piaciuto il suo pragmatismo ponderato – altrettanto non si può dire del tradizionale alleato del blocco cristiano-democratico, i liberali della FDP, che pagano i rapporti non più idilliaci con la lobby confindustriale tedesca e ampi settori dell’alta borghesia tedesca che costituiscono il principale bacino di voti. Ai politici di punta della FDP, il ministro degli Esteri Guido Westerwelle e Philipp Roesler, capopartito e ministro dello sviluppo economico, è stato affibbiato il peggiore dei marchi politici: quello dei “leggerini”. È il cedimento della FDP, in passato partito molto ascoltato su tematiche economiche e di politica estera grazie all’autorevolezza di nomi celebri come Otto Lambsdorff e Rainer Bruederle, a creare grattacapi ad Angela Merkel, così come l’onda montante dell’astensionismo di massa. Il rischio è infatti la crescita di formazioni euroscettiche ma moderate, capaci di attrarre elettori amareggiati dai partiti di sempre e tra le fila degli astenuti. Indignados tedeschi, insomma, disposti ad accordare la propria preferenza alla AfD secondo uno schema che per molti aspetti presenta analogie con il successo dello UKIP, i moderati britannici anti-europa. A spaventare non sono i numeri di queste formazioni, ma l’effetto-domino che sarebbero capaci di innescare all’interno dei grandi partiti tradizionali, timorosi di subire emorragie di voti. Se, dunque, la AfD facesse l’ingresso nel Bundestag e fosse capace di attrarre maggiore visibilità, i partiti maggiori potrebbero essere tentati di inasprire a loro volta i toni su tematiche europee.

La fine del doppio registro?

Con l’avvitamento dei toni nell’eurodibattito tedesco verrebbe a spezzarsi il tradizionale doppio registro berlinese, in cui il ruolo del “poliziotto cattivo” è impersonato non tanto dalla politica – sia Merkel sia Wolfgang Schaeuble sono stati sempre molto attenti a non sbilanciarsi nei confronti dei propri partner europei – bensì da istituzioni non elette ma considerate roccaforti del credo economico tedesco. Come la Bundesbank, guidata peraltro da un ex consigliere della Merkel e attualmente impegnata a sfidare la banca centrale europea sul delicatissimo tema dell’acquisto di titoli di debito sovrano di membri dell’Eurozona sul mercato secondario. Una partita iniziata sottotraccia l’anno scorso, e sfociata in un’accelerazione mediatica molto poco tedesca, con una fuga di notizie pilotata e la diffusione dei dossier di accusa tra i giornali tedeschi. Secondo la Bundesbank, schierata arcignamente a difesa della propria dottrina anti-inflazione, il programma di Draghi – finora mai attivato, ma considerato uno scudo nucleare rispetto ai rischi che si addensano sulla periferia dell’euro – si tradurrebbe in un sostegno ai Paesi della zona euro vietato dallo statuto della BCE. Quest’ultima, tuttavia, non ci sta a farsi mettere nell’angolo e ha risposto con un corposo fascicolo di controdeduzioni. Al momento la questione è finita davanti alla Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe, chiamata a valutare l’eventuale scavalcamento del Parlamento tedesco da parte di Francoforte e, dunque, l’incompatibilità con la costituzione tedesca del bazooka di Mario Draghi.

La partita intorno alla BCE

La sentenza, il cui contenuto è ignoto e tiene comprensibilmente sospesi i mercati dei capitali e le cancellerie del resto d’Europa, arriverà solo in autunno, dopo le elezioni tedesche. Logico che al momento sia un continuo di speculazioni sulle manine che muovono l’attacco a Draghi. La tradizionale dialettica tra governo e banca centrale tedesca, messa a nudo da diversi studi accademici attraverso una fredda disamina delle schermaglie comunicative nel periodo 1989/1998, ha subìto un salto di qualità dopo l’avvento dell’euro, e si è amplificata lungo il canale che unisce Berlino a Francoforte. La presenza tra i banchieri centrali tedeschi di ex funzionari provenienti dalla politica o dai ministeri e la pubblicazione delle carte procedimentali su giornali tradizionalmente vicini al governo aumenta poi i sospetti di contiguità tra l’esecutivo Merkel e la Bundesbank, in un gioco di specchi di cui si fatica a distinguere i contorni esatti. Il saldo netto, tuttavia, è chiaro e si traduce in aspettative cariche di tensione sui mercati: il semplice fatto che il bazooka di Draghi sia messo in discussione, lega le mani al supergovernatore e crea un problema all’europeriferia. Roma non fa eccezione, perché viene mitigato l’effetto benefico di un esecutivo Letta dalle marcate credenziali europee e forte di un canale diretto tra Roma e Francoforte. Tre gli esiti ipotizzabili: il bazooka viene prosciolto con formula piena (scenario rosa), il bazooka viene drasticamente rigettato (scenario nero), il bazooka viene assoggettato a una serie di condizioni fortemente limitanti (scenario ibrido). Il secondo e il terzo scenario sarebbero immediatamente considerati come un indizio forte di politiche economiche annessionistiche da parte di Berlino, e segnalerebbero la volontà di disintermediare la BCE. Per molti versi, resta la sensazione di un’amnesia storico/strategica delle élites tedesche. Ancora una volta, come nel 1890, la Germania possiede molte tra le industrie più avanzate al mondo, ottime università e uno stato sociale meno avariato degli altri Paesi occidentali. Nel 1920 la Germania si ritrovò in macerie, vittima della propria volontà di potenza. In pochi anni, infatti, i vertici germanici si erano convinti di poter essere molto di più di una potenza regionale e di dover essere una potenza mondiale. La crescita rapida della marina da guerra imperiale produsse tuttavia una convergenza inedita tra Gran Bretagna, Francia e Impero Russo (e il successivo, decisivo intervento di Stati Uniti e Canada), e la Germania uscì a pezzi dal primo conflitto mondiale. L’assertività economica tedesca, quindi, sembra la riproposizione – senza cannoni o panzer – di un riflesso culturale che ciclicamente produce squassi nella pax globale per le tensioni che crea. Ma di questo – speriamo – è ancora prematuro parlare.

Francesco Galietti 

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