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Ecco come Letta può costruire un ponte con Washington

L’imminente visita del Premier Enrico Letta a Washington non può essere certo paragonata a quella di Alcide De Gasperi nel 1947. Ma i paralleli non mancano. Ora come allora, sia pure in termini diversi, l’Italia è da ricostruire e la solidarietà americana continua ad esserci utile, anche nei confronti di Bruxelles.

Visto da fuori, il nostro Paese è sempre un oggetto misterioso, difficilmente decifrabile. Le sue componenti sono ormai ben note a tutti: è l’insieme che sfugge alla generale comprensione. Dalla “democrazia zoppa” (per l’obbligata emarginazione del PCI), alle “convergenze parallele”, al “compromesso storico” e ora alle “larghe intese”, dalla “prima” alla ‘seconda Repubblica, le formule governative rimangono opache per l’osservatore straniero. Soprattutto data l’assenza di risultati consistenti e durevoli.

Dai tempi di de Gasperi, Einaudi e Sforza, appunto, sia pure con un andamento altalenante, i due riferimenti obbligati della nostra politica estera sono stati Washington e l’Europa. Ambedue indispensabili, speculari puntelli e pungoli: il primo, spesso in funzione di controassicurazione quando il secondo si allentava. L’Italia, comunque sempre presente agli appuntamenti cruciali, sempre partecipe (dall’installazione dei Cruise all’adesione all’euro, persino in Afghanistan), è però ormai da troppo tempo poco incisiva o propositiva.

Da oltre vent’anni, dalla caduta del Muro, i “piloti automatici” atlantico ed europeo ai quali avevamo affidato la nostra navigazione nel mare aperto dei rapporti internazionali sono venuti meno. Da Washington e Bruxelles non ci giungono più prescrizioni, semmai delle sollecitazioni.

Fra Obama e Letta, incontratisi in occasione del G8 e del G20, si è già instaurata la simpatia istintiva fra due “uomini nuovi”, alle prese con un possibile modo nuovo di fare politica. Dall’incontro di Washington, che coinvolgerà anche le consorti, dovrebbe emergere una più esplicita visibilità del ruolo che compete all’Italia nelle nuove condizioni internazionali.

L’agenda spazierà ovviamente dal risanamento italiano (ed europeo), alle prospettive del negoziato economico transatlantico appena avviato, ai temi regionali di massima attualità: dalle primavere arabe, alla Siria, alla situazione libica, rispetto alle quali il concorso italiano rimane essenziale, politicamente ed operativamente. La disponibilità di nostre basi militari per il dislocamento di marine e droni americani da impiegare nel teatro strategico mediterraneo, ad esempio, non deriva più da impegni NATO (come non fu nemmeno nel caso della Libia o, ancor prima, del Kosovo), e dovrà pertanto essere adeguatamente valorizzato.

Da parte nostra, sarà importante ottenere maggiori indicazioni sulle intenzioni e i tempi dell’annunciato cambio di direzione americano verso l’altro loro vicinato, quello del Pacifico, che potrebbe riversare maggiori responsabilità sull’Europa, nei Balcani, nel Mediterraneo, e persino nei confronti di Mosca. Il Cremlino, infatti, rilutta non soltanto a “rimettere a zero” il contatore dei rapporti bilaterali con Washington, ma anche a stabilire più costruttive relazioni con l’Unione europea in quella fascia di instabilità che, dalla Bielorussia al Caucaso, divide ancora il continente. Argomenti strategici, questi ultimi, nei confronti dei quali anche l’Italia può far valere il valore aggiunto di un proprio ruolo più attivo.

La simpatia di cui continuiamo a godere ha solide radici storiche e culturali (che “l’anno della cultura italiana” sta rievocando in molte città statunitensi). Un patrimonio che dovrebbe assicurarci perdurante attenzione e solidarietà. Purché l’Italia sappia uscire dalle secche interne che la hanno bloccata per un ventennio (un altro!), e ritrovare la funzione e le corrispondenti responsabilità che le competono sul piano internazionale.

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