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Quando il Regno delle Due Sicilie era la Germania. La lezione italiana all’Europa

Ormai anche i più incalliti e indefessi difensori della costruzione monetaria europea iniziano ad esprimere i primi seri dubbi. Traspaiono sempre più ammissioni d’insostenibilità dalle dichiarazioni degli uomini politici e dall’establishment economico italiano ed europeo perché si stanno rendendo conto, giorno dopo giorno, che la l’area valutaria europea sta provocando danni irreversibili a quasi tutti i paesi membri e in prossimità delle elezioni comunitarie, previste per il prossimo fine maggio, tentano di non perdere troppi consensi rincorrendo l’elettorato che invece ha capito perfettamente dei macroscopici errori compiuti.

Non starò in queste righe a ripercorrere tutte le incongruenze di questa aggregazione valutaria che non è riuscita ad integrare le economie di Paesi con caratteristiche molto diverse fra di loro avendo voluto modificare, dopo la caduta del muro di Berlino, l’originaria Comunità Economica Europea in Unione Europea. Mi limiterò a segnalare che se gli ideatori della moneta comune avessero preso proprio l’Italia come esempio, avrebbero potuto prendere spunto dalla unione monetaria avvenuta ai tempi della sua unificazione nel 1861, quando gli Stati preunitari, a cui si aggiunse presto lo Stato Pontificio, furono chiamati a condividere la stessa moneta e soprattutto i propri debiti pubblici.

A quei tempi convivevano infatti nello stivale Stati valute differenti alle specifiche previste poi dal 1865 dalla cosiddetta Unione Monetaria Latina, la quale sancì un accordo fra diversi paesi europei e alcuni sud americani, per ricondurre le proprie monete ad uno standard comune sulla base di 4,5 grammi di argento puro e di 0,290322 grammi di oro puro (rapporto di 15,5 a 1), rendendo fra l’altro così intercambiabili e spendibili le monete fra loro.

Gli Stati italiani, che prima dell’Unità non avevano adeguato i loro sistemi monetari a quello che avrebbe previsto da lì a qualche anno la citata Unione monetaria Latina, dotati pertanto di monete con valori e caratteristiche diverse, le concambiarono in ragione dei rapporti di cambio determinati dal valore del metallo che contenevano rispetto alla lira divenuta ormai valuta ufficiale del nuovo Stato italiano, mentre gli altri continuarono a usarle indistintamente, avendo lo stesso valore nominale e intrinseco, fino alla sostituzione con quelle aventi lo scudo Sabaudo incorniciato nella scritta Regno d’Italia e con l’effige di Vittorio Emanuele II. Naturalmente quest’aspetto tecnico sull’introduzione della stessa moneta su tutto il territorio della nuova nazione fu marginale rispetto a tutta l’operazione d’integrazione in quanto poté essere portata a compimento con successo perché contestualmente fu avviata una profonda integrazione fra i diversi sistemi preunitari, iniziando da un’effettiva e immediata unione politica, fiscale e giurisdizionale, alla “fusione” dei rispettivi debiti pubblici e ad una profonda riunificazione amministrativa, con la famosa legge del 20 marzo 1865 n.2248 che semplificò e ammodernò, rimuovendo gli ostacoli che rendevano complessa, incerta e non uniforme, l’applicazione delle leggi rispetto ai precedenti diversi ordinamenti. In poche parole un solo governo centrale consentiva al nuovo Stato di poter esercitare la propria Sovranità in tutte le sue forme ad iniziare dall’utilizzo di uno stesso modello economico a supporto e che tenesse conto di tutte le esigenze tarate secondo le effettive esigenze della nuova nazione.

Ma la “certificazione” finanziaria più interessante di tutto questo complesso processo è stata possibile grazie a un puntuale e interessantissimo studio condotto recentemente dalla professoressa Stephanie Collet, docente di Storia della Finanza alla Université Libre de Bruxelles, la quale con metodi veramente certosini ha ricostruito, per mezzo della consultazione degli archivi storici delle Borse di Parigi e di Anversa, la storia dell’integrazione dei debiti sovrani degli Stati preunitari italiani.

Il lavoro ha evidenziato come tutti i vari debiti pubblici degli Stati preunitari italiani, continuarono a essere quotati con la loro indicazione dello Stato emittente d’origine fino alle rispettive scadenze naturali, naturalmente ridenominati tutti in lire, ma apponendo semplicemente il suffisso iniziale di “Italy” a garanzia che i titoli erano sotto la garanzia solidale di un unico nuovo Stato Sovrano.

Per un certo periodo convissero pertanto 25 emissioni di obbligazioni di debito pubblico, sottodivise in quattro gruppi: “Italy-Piedmont-Sardaigne”, “Italy-Lombard”, “Italy-Pontificaux” e “Italy-Neapolitean”, le cui quotazioni continuarono regolarmente a essere fissate giornalmente nelle principali Borse europee.

E’ quanto mai interessante notare che, prima dell’Unità d’Italia, i rendimenti dei titoli dei diversi gruppi sopra elencati erano molto diversi fra loro, con il Regno delle Due Sicilie (25% del totale del debito) inferiori di 140 punti base rispetto alle emissioni papali (pari al 29%) e di quelle piemontesi (44% del totale) e di 160 punti base rispetto a quelle Lombardo-Venete (solo il 2% del totale).

Non possiamo non rilevare, con una punta d’ironia, che a quei tempi, seguendo l’attuale logica degli spread, i napoletani sarebbero stati considerati gli attuali tedeschi! Ciò era possibile in quanto, prima dell’integrazione dei debiti sovrani, Napoli era la capitale dello Stato più ricco della penisola, potendo contare su una agricoltura fiorente, ricche miniere, una buona struttura industriale, su importanti e efficienti porti commerciali e soprattutto di cospicue riserve auree. Di contro quello piemontese si era enormemente indebitato sui mercati per far fronte alle dispendiose spese per finanziare le guerre d’indipendenza intraprese per compiere la tanto sospirata Unità nazionale.

Lo studio della professoressa Collet ha inoltre evidenziato come anche a quei tempi vi fosse uno scetticismo da parte dei mercati internazionali nei confronti dei processi di unificazione, imponendo un “risk premium” comune a tutte le obbligazioni ormai divenute italiane. Se ad esempio prima del 1861 le obbligazioni emesse da Torino rendevano 5,70% e quelle da Napoli il 4,30%, a unificazione avvenuta, tutti i titoli si allinearono subito al più elevato 6,90%.

Questa situazione durò fino a qualche anno dopo il 1870, quando ad annessione e conseguente trasferimento a Roma della Capitale gli investitori si convinsero, complice anche una rivalutazione della lira sulla sterlina inglese, che finalmente l’Italia fosse realmente divenuta un Stato sovrano e non più una mera espressione geografica come ebbe a dire il potente Cancelliere dell’Impero Austro-Ungarico Klemens von Metternich (peccato che morì due anni prima nel 1859!), consentendole di emettere nuovi titoli di debito a tassi sempre più vantaggiosi e con importi sempre più consistenti.

Fare l’Europa significava aver compiuto scelte del genere e non norme e regolamenti che avrebbero imposto di fatto solo la perdita della sovranità monetaria, lasciando però i debiti pubblici alla gestione di ciascun paese, privati peraltro di indispensabili strumenti autonomi di politica monetaria e non integrando praticamente nulla!

Affidare almeno la porzione percentuale del 60% dei debiti sovrani previsti dai dettami di Maastricht alla comune garanzia, che solamente emissioni di titoli condivisi avrebbe potuto realizzare, avrebbe significato in modo inequivocabile la volontà di una effettiva unione e di una reale moneta per il raggiungimento, nel breve termine, dell’Unione politica e fiscale per l’ottimizzazione del mercato unico. Ma ormai ci rimane solamente l’amarezza di aver constatato, a nostre spese, che per realizzare una moneta unica si è presa come scusa la realizzazione di un grande mercato, mentre invece alla fine si è rivelato essere una vera e propria farsa, dove a distanza di 22 anni dalla costituzione dell’Unione Europea un esercito di euroburocrati non è riuscito ad uniformare neanche le aliquote IVA, base essenziale per un’effettiva circolazione di beni e servizi.

La mutualità dei debiti non è stata considerata come fattibile principalmente dalla Germania e non rientra assolutamente nei programmi di tutte le forze politiche che rappresentano il paese, nella convinzione che i propri cittadini interpreterebbero tale decisione a loro discapito e come una ulteriore concessione a favore dei paesi più deboli dell’Unione. Nello stesso accordo di grande coalizione per la guida del governo tedesco siglato il 16 dicembre 2013 fra il Cdu, Csu e Spd, non è prevista la realizzazione di eurobond.

Non illudiamoci pertanto più di tanto: gli eurobond non verranno mai alla luce per condividere almeno porzioni di debiti pubblici dei paesi europei, non essendoci lo specifico impegno di legarsi concretamente per compiere quel passo che dimostrerebbe la volontà più forte possibile di coesione e gettando le basi di una vera unione politica e federale. Senza la condivisione anche dei debiti, cioè delle passività, non è immaginabile una qualsiasi forma di sopravvivenza di area valutaria.

Ma sappiamo che quest’ultima opzione non rientra allo stato attuale nei programmi della Francia e della stessa Germania, forse ancora troppo diffidenti nei confronti di questa aggregazione monetaria che sta facendo emergere con tutta la sua forza effetti collaterali imprevisti e generando disastri cui nessuno ancora riesce a porre seri rimedi.

Invece il permanere in questa condizione di “limbo”, che richiede oneri non controbilanciati da pieni e pari privilegi, fa trasparire evidente la volontà di dotare l’Europa non di una reale moneta, ma di voler consolidare una sorta di sovrastruttura di governo che opera a surroga di quelli scelti democraticamente con il suffragio universale ad esclusivo appannaggio di una ristretta oligarchia autoreferenziale non eletta che esercita il potere nell’interesse non dei cittadini europei ma di ristrette lobby di parte.

Quando si vuole imporre dall’esterno regole economiche estremamente penalizzanti e dure da rispettare per l’economia di un nazione, si compie una irragionevole forzatura con implicazioni di carattere politico e istituzionale, poiché si estranea la condivisione dei cittadini dalla gestione democratica incrinando il rapporto fra paese e istituzioni.

Come considerazione maliziosa ma veritiera potremmo dedurre che non dispiace affatto all’area del Nord Europa che ci siano paesi con il proprio debito espresso nella stessa valuta euro, quindi al riparo da rischi di cambio, ma a cui si debbano corrispondere tassi d’interesse più elevati della media per consentire agli investitori di poter percepire differenziali più remunerativi nella consapevolezza che comunque riusciranno sempre a recuperare il capitale per l’attivazione di meccanismi di tutela e per l’intervento dei governi che faranno sempre di tutto pur di onorare i debiti contratti anche a costo di esporre i propri cittadini e il sistema delle imprese ai più feroci e iniqui prelievi fiscali.

La morale fra il successo dell’Unità d’Italia e il fallimento di quella Europea è che quest’ultima è voluta passare esclusivamente da una moneta a supporto di un finto mercato, mentre quella italiana è stata realizzata coinvolgendo non solo l’emotività di un popolo che voleva ritornare unito ma da una integrazione politica, fiscale e amministrativa compiuta da un unico governo centrale.

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