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La resistibile ascesa della Costantinopoli cinese

Lembo estremo del nascente impero, Hong Kong è la punta orientale dell’internazionale finanziaria che regola le nostre vite con soddisfazione sua, che ormai gareggia con i grandi per pil pro capite, e nostra, che all’ombra del dispotismo cinese celebriamo i nostri carissimi diritti, incuranti della circostanza d’esser finiti nella morsa di una gigantesca tenaglia globale, all’interno della quale la piccola Europa rischia lo stritolamento.

E ciò malgrado leggiamo ammirati, sfogliando l’ultimo report del Fmi su Hong Kong, che il sistema finanziario di questa sorta di Costantinopoli cinese “è uno dei più grandi e più sviluppati del mondo”, con un sistema bancario “altamente capitalizzato, profittevole e liquido” che gestisce asset per due trilioni di dollari che equivalgono al 705% del suo Pil, di fronte al quale il 500% svizzero sembra moderato.

Stato-città ricca, perciò, come nella storia lo sono sempre stati i regni d’Oriente, e degna antagonista (ma solo in apparenza) della città-stato di New York, da cui la vicenda imperiale s’origina e si dipana, avvolgente e dondolante come una ragnatela, in tutto il mondo.

Giova perciò conoscere meglio Hong Kong, vera Mecca per i cacciatori di rendimenti, con un mercato azionario che ormai capitalizza il 1000% del Pil e un mercato assicurativo che ormai è il secondo dell’Asia, dopo il Giappone.

Come ha fatto una piccola ex colonia britannica a compiere questo miracolo?

Come fanno tutti: affrontando rischi crescenti. Perché la legge fondamentale della finanza, che vuole l’opportunità della ricchezza procedere a braccetto col rischio della miseria, non fa certo eccezione navigando verso Oriente. Anzi, semmai si estremizza.

“Il settore tuttavia – avverte il Fmi – deve affrontare grandi rischi”.

Rischi che ormai conosciamo bene. “L’uscita anticipata dalle politiche non convenzionali negli Stati Uniti può aumentare il rischio di volatilità dei capitali e ridurre la liquidità globale del sistema. Una correzione dei prezzi degli immobili, che si trovano al loro livello storicamente più elevato, pone rischi per i debitori e le banche. E l’integrazione con la Cina, che pure offre diverse opportunità di espansione, genera numerosi rischi di contagio, specialmente se si dovesse sperimentare uno scossone finanziario o un rallentamento economico”.

Hong Kong, insomma, è come un’automobile sportiva: piccola e veloce, ma difficile da guidare, qualora i curvoni dell’economia dovessero diventare troppo parabolici.

Ciò spiega bene perché la piccola ex colonia britannica sia una sorvegliata speciale. Dal Fmi, ma anche dalle sue stesse autorità. Gli stress test condotti dal regolatore hanno concluso che il sistema bancario potrebbe assorbire gravi perdite, ma al tempo stesso ha evidenziato come poche piccole banche potrebbero scoprirsi vulnerabili in caso di crisi grave. Senza contare la circostanza che a Hong Kong giocano un ruolo molto importante numerose global systemically important institutions (G-SIFIs), ossia le famose entità finanziarie troppo grandi per fallire.

Altresì le autorità sono molto preoccupate per il raddoppio del prezzo degli immobili, tanto è vero che L’Hong Kong monetary authority (HKMA) ha introdotto limiti più stringenti sugli indici del loan-to-value (LTV) e sui debt-servicing ratios (DSR). Come al solito si chiude la stalla quando i buoi sono già andati a pascolare.

Nel dettaglio, può essere utile sapere che a Hong Kong operano 201 istituzioni finanziarie, 156 delle quali sono banche. Di queste 135 sono filiali di banche estere, 14 sono sussidiarie e solo 7 sono banche locali. Sul territorio operano 29 G-SIBs, ossia banche troppo grandi per fallire e gli asset delle quattro banche più grandi pesano circa la metà degli asset globali del sistema bancario.

Questo piccolo colosso bancario convive con un mercato borsistico che è fra i più grossi del mondo, con i suoi 2,7 trilioni di capitalizzazione (dato di giugno 2013) e le sue 1.567 società quotate, 743 delle quali provengono dalla Mainland cinese, rappresentando circa il 56% della capitalizzazione totale. Altre 722 sono locali e il resto di altri paesi dell’Asia. E poi c’è il mercato assicurativo, che colloca Hong Kong al quarto posto nella classifica mondiale per densità del settore (pesa il 12,9% del Pil) e le sue 155 compagnie in larghissima parte estere.

Hong Kong, insomma, somiglia al nostro piccolo Lussemburgo: uno spicchio di terra dove si sono concentrati i finanzieri di tutto il mondo e che pompa freneticamente denaro.

A fronte di quest’enorme infrastruttura creata e gestita per far girare soldi, c’è un pil reale cresciuto del 2,9% nel 2013, per lo più grazie a consumi e investimenti, con un’inflazione stabile al 4% e un surplus fiscale del 3% del Pil e una disoccupazione intorno al 3%. “Le prospettive di medio termine sono buone – nota il Fmi – date anche le prospettive favorevoli dei principali partner, inclusi la Cina e gli Stai Uniti”. Proprio ad Hong Kong infatti, i due giganti dell’Estremo Occidente e dell’Estremo Oriente, celebrano il loro matrimonio di interesse.

La crescita a dir poco esuberante del credito ne è esempio preclaro. Nel 2013 il credito è cresciuto del 16%, e anche quello in valuta estera è cresciuto a doppia cifra, mentre i crediti denominati nel dollaro di Hong Kong sono cresciuti dell’8%. Molti di questi prestiti vanno all’estero, e segnatamente in Cina, che a Hong Kong ha trovato uno straordinario provider per il suo processo di internazionalizzazione.

Tanto è cresciuto, il credito, che nonostante il notevole incremento dei depositi l’indice del loan-to-deposit (LTD), ossia il rapporto fra prestiti e depositi è arrivato al 72% a giugno 2013. Così come è cresciuto il debito privato delle famiglie, al top della sua storia con il 62% sul reddito. Numeri bassi, per i nostri standard occidentali, ma elevatissimi, per quelli orientali.

La nostra Costantinopoli, insomma, sta imparando tutti i vizi di Roma.

Se guardiamo al settore corporate, vediamo che anche i prestiti alle imprese hanno raggiunto il loro record storico, raggiungendo il 151% del Pil a fine 2013, ben al di sopra di quanto hanno fatto i vicini. Il settore delle costruzioni e del real estate pesa il 25% di questi prestiti e l’indebitamento mediano risulta particolarmente elevato, pure se il credito al mattone ha iniziato a rallentare.

Tutto ciò spiega bene perché il Fmi tema l’irrigidirsi delle condizioni monetarie. Molte banche, infatti, dipendono dai prestiti esteri per il loro funding, e a sua volta l’immobiliare. Quindi “una correzione disordinata può condurre a un distruttivo outflows di capitali e a pressioni sulla liquidità”.

Pesa inoltre la crescente integrazione di Hong Kong con la Mainland cinese, che è insieme finanziaria e commerciale. Quindi i problemi cinesi, siano essi finanziari o di rallentamento economico, ci mettono un istante a trasferirsi ad Hong Kong. Infine, c’è sempre il rischio mattone, che è diventato troppo rilevante per non essere affrontato. L’indice dei valori immobiliari, che valeva 100 nel 1999 ormai ha superato 225.

L’analisi del network relazionale che si dipana da HK, inoltre, mostra che la piccola metropoli, è anch’essa una potenziale fote di contagio internazionale. Al di là delle ragioni che possono determinare lo shock, esso si propagherebbe immediatamente a Macao, Singapore, Giappone, Corea del Sud e ovviamente Regno Unito e Stati Uniti, essendo questi ultimi due le principali controparti occidentali della Costantinopoli cinese.

Ma questo non vuole dire che l’Europa ne sia immune. Uno shock creditizio a Hong Kong, che devasterebbe Macao, avrebbe conseguenze notevoli anche in Svizzera e, a seguire, negli Usa, e in Belgio i guasti sarebbero peggiori persino di Singapore. E anche Francia e Germania avrebbero poco da sorridere.

La piccola-grande Costantinopoli cinese, d’altronde, è una mirabile creatura europea, malgrado le apparenze. Un meraviglioso Frankestein finanziario.

E tutti conoscono la fine che ha fatto il dottor Frankestein.

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