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Facebook, la privacy ci interessa veramente?

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Facebook torna periodicamente nell’occhio del ciclone per questioni legate alla privacy. Gli utenti gridano allo scandalo, ma ben pochi abbandonano il social network perché si sentono “spiati”. Nei giorni scorsi ha fatto notizia lo studio emozionale condotto nel 2012 su un campione di 700mila iscritti al sito, i cui risultati sono usciti sul sito web della rivista Pnas.

Per una settimana, nel 2012, Facebook ha manipolato i contenuti visualizzati sulla cronologia di una serie di profili per verificare se gli stati emotivi si possano trasmettere tra le persone. Il Garante della privacy britannico ha già annunciato che approfondirà l’accaduto e negli Usa è stato sollecitato l’intervento della Federal Trade Commission. Il terreno per i legali sarà scivoloso: oggi, nella Privacy Policy di Facebook, si avvisano gli utenti che le loro informazioni possono essere usate per motivi di “ricerca”, ma quella policy non menzionava gli scopi di ricerca nel 2012, ai tempi dello studio emozionale.

Secondo i dati di GlobalWebIndex, il 54% degli utenti attivi su Facebook si dice preoccupato per la privacy, mentre nel 2012 la percentuale era al 44%. Per GlobalWebIndex, però, “l’ultima gaffe del social network verrà dimenticata perché gli utenti hanno la memoria corta e non abbandoneranno la piattaforma in segno di protesta. Questo vuol dire che Facebook avrà ancora una portata globale e un appeal pubblicitario, più di qualunque altro social network”.

Infatti, di passi falsi il social network ne ha già fatti – dalla manipolazione delle News Feed al programma Beacon che controllava le abitudini di shopping degli utenti (poi cancellato) – ma ciò non ha impedito a Facebook di raggiungere quasi 1,2 miliardi di iscritti.

C’è anche da considerare che gli algoritmi possono carpire le emozioni umane solo in modo approssimativo: la cosiddetta “sentiment analysis” su cui si è fondato l’esperimento di Facebook e che analizza i testi per ricavare le emozioni celate dietro le parole e metterle al servizio del marketing, non è in grado di leggere le sfumature che accompagnano le espressioni verbali e sentimentali umane.

Lo studio emotivo divide le parole in un set predefinito tra positive e negative, ma, per fare un esempio, quando diciamo “tremendo” non sempre vogliamo significare “orribile” (negativo); a volte usiamo l’aggettivo in tono scherzoso (“Sei tremendo”, nel senso “Sei proprio un tipo”). Però gli esperti sostengono che nelle scelte binarie più semplici la sentiment analysis si è rivelata corretta e questo ai marketer basta. E Facebook non si lascia sfuggire l’opportunità di monetizzare.

 

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