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Assirm: caro Renzi, sei proprio convinto di voler cancellare i contratti a progetto?

Intervista a Umberto Ripamonti, presidente di Assirm, l’Associazione degli Istituti di ricerche di mercato, sondaggi di opinione e ricerca sociale che rappresenta l’80 per cento del settore, sulle conseguenze della cancellazione del contratto a progetto paventata nel Jobs Act. Le aziende che fanno ricerche di mercato utilizzano spesso questo tipo di contratto particolarmente adatto per la specificità di questo lavoro, riconosciuta anche dai sindacati. La sua cancellazione metterebbe a serio rischio le aziende e i posti di lavoro del settore. Ripamonti ci spiega perché.

Tra i provvedimenti più forti del Jobs Act c’è la possibile cancellazione dal nostro ordinamento dei contratti di collaborazione e dei contratti a progetto. Dipenderà da una moratoria che partirà a gennaio e dopodiché questo potrebbe essere l’esito. L’obiettivo è combattere gli abusi eliminando completamente queste forme contrattuali. Ci spiega perché voi siete contrari e potete lavorare solo con i contratti a progetto?
Partiamo da una doverosa premessa. Noi siamo fermamente contrari all’abuso dei contratti di collaborazione. E’ impensabile e soprattutto illecito che un cameriere o una commessa vengano inquadrati con contratti di collaborazione. Lì si tratta chiaramente di lavoro subordinato che va formalizzato con contratti di lavoro dipendente. Per il nostro settore, invece, le cose sono diverse. Il contratto a progetto è il nostro contratto ideale non solo per ragioni di costo, ma anche perché è il più conforme al nostro modello di produzione e di organizzazione del lavoro. Noi lavoriamo per commessa e per lavori che hanno una durata prestabilita, non abbiamo una continuità produttiva, e di conseguenza organizziamo il lavoro in funzione delle nostre commesse. Allo stesso tempo l’attività lavorativa svolta dai collaboratori non è vincolata ad un orario fisso o alle dinamiche tipiche del lavoro dipendente. Quello che indichiamo è solo la data di consegna e dopodiché l’organizzazione del lavoro è svolto in modo assolutamente autonomo: è il collaboratore che decide l’orario di lavoro a lui più adatto. Questi tre aspetti fondamentali fanno del contratto a progetto il nostro contratti ideale. Se ci obbligassero a ricorrere al contratto a tutele crescenti trasformeremo un costo variabile in costo fisso e l’intero sistema non reggerebbe più.

Lo schema del Jobs Act prevede una forte semplificazione contrattuale in cui il lavoro subordinato verrebbe ricondotto a pochi contratti e quello autonomo esclusivamente alla partita Iva, abolendo tutte le altre forme. Questo potrebbe accadere con i decreti attuativi del 2015. I vostri collaboratori, vista la natura autonoma dell’attività, potrebbero essere ricondotti verso la partita Iva. La convince questa ipotesi?
Diciamo che in generale il Governo Renzi sul tema dei contratti di lavoro autonomo sta intervenendo con il macete mentre a mio avviso sarebbe più saggio usare il bisturi. La realtà del lavoro e delle produzioni è complessa e una riforma che prescinde da questa complessità rischia di creare più danni che benefici. Per rispondere alla sua domanda, dico che la prospettiva di trasformare i nostri collaboratori in partite Iva non mi convince. C’è una flessibilità buona che risponde alle esigenze delle persone. Ricordo che i collaboratori del nostro settore sono soprattutto giovani, mamme e capi di famiglia che integrano con questo lavoro il loro livello di reddito. Sono tutte persone che hanno l’esigenza di conciliare l’attività lavorativa con altri impegni privati o di fare un doppio o triplo lavoro. Lei ce li vede una mamma o uno studente che per un lavoro magari di solo un anno sono costretti ad aprire la partita Iva con i relativi costi di tenuta della contabilità e di anticipo delle tasse ogni anno? Io no. Capisco e condivido che gli abusi vanno eliminati, ma l’obiettivo non può essere la cancellazione anche della buona flessibilità e con essa di un intero settore produttivo.

Nel vostro settore ci sono buone relazioni sindacali, al contrario di quello che qualcuno potrebbe pensare. Nel 2013 è stato firmato un innovativo contratto nazionale di regolazione dei contratti a progetto che ha previsto l’introduzione di significativi istituti di tutela e firmato da tutte le sigle sindacali che hanno riconosciuto la specificità di questo lavoro. Quali sono i punti più significativi dell’accordo?
Alla base di questo accordo c’è stato un vero processo virtuoso tra le parti coinvolte. Abbiamo trovato nei sindacati interlocutori sensibili e assolutamente interessati a fare un percorso comune. Nello specifico il contratto nazionale ha previsto per i collaboratori, per la prima volta nel nostro Paese, l’indicazione di un compenso minimo equo equivalente al IV livello del CCNL del Commercio, l’introduzione della formazione continua obbligatoria, il riposo pagato, concetto assolutamente innovativo per un rapporto di lavoro autonomo; la cosiddetta continuità lavorativa di bacino aziendale, in altri termini le aziende s’impegnano a dare lavoro agli stessi collaboratori che hanno collaborato in precedenza per evitare un’eccessiva rotazione e la garanzia dei diritti sindacali. Questo accordo firmato a novembre del 2013 e entrato in vigore a gennaio 2014 ha avuto il consenso di oltre il 90 per cento dei collaboratori. E’ questa la strada che permette di conciliare le esigenze della flessibilità con quelle delle tutele.

Se il Governo Renzi non volesse sentire ragioni e andasse avanti con l’idea della cancellazione del contratto a progetto e con esso delle buone prassi di contrattazione collettiva della flessibilità come quella appena descritta, cosa succederebbe al settore delle ricerche di mercato? Quali le conseguenze occupazionali?
Il nostro comparto fattura 600 milioni di euro l’anno, di cui l’80 per cento proviene dalle aziende aderenti ad Assirm, abbiamo 6 mila dipendenti e circa 20 mila collaboratori suddivisi in 160 aziende circa. Il rischio immediato che vedo è la chiusura di tutte le aziende che utilizzano le tre figure professionali tipiche del nostro lavoro e che sono normalmente inquadrate con i co.co.pro., ossia gli intervistatori telefonici, quelli personali (face to face) e i rilevatori statistico-scientifici. Per le aziende che ricorrono prevalentemente all’interviste telefoniche, invece, l’unica via che rimane per sopravvivere è la delocalizzazione verso altri paesi vicini all’Italia come Albania o Tunisia, solo per fare qualche esempio, in cui ci sono condizioni di costo del lavoro e di flessibilità molto differenti rispetto all’Italia. Con questo provvedimento s’incentiva l’esodo delle aziende e di un intero settore verso altri Paesi con la conseguente cancellazione di migliaia di posti di lavoro.

A questo punto, visto la posta in gioco, cosa chiedete al Governo Renzi?
Chiediamo che venga riconosciuta la specificità del nostro settore e di conseguenza non ci venga negata la possibilità di ricorrere alla forma contrattuale più idonea al comparto delle ricerche di mercato. Che si tenga conto che abbiamo già avviato una positiva contrattazione collettiva che ha introdotto significative forme di tutela per i collaboratori del settore e non si butti via uno dei pochi casi di relazioni sindacali positive sulla regolamentazione della flessibilità. Si tenga conto di tutti i seri rischi denunciati e soprattutto che qualcuno del Governo risponda alle nostre sollecitazioni per un incontro-confronto. Siamo anche disponibili a ragionare su altre ipotesi contrattuali differenti e in questo senso proponiamo come eventuale alternativa ai contratti a progetto la possibilità di ricorrere al contratto a chiamata, il cosiddetto Job On call. E’ una formula contrattuale che opportunamente rivista, dopo l’introduzione di una serie di paletti e limitazioni previsti dalla legge Fornero, potrebbe rappresentare un’ipotesi alternativa ragionevole e positiva per tutti. Ci auguriamo che il Governo ci ascolti almeno nella fase di elaborazione dei decreti attuativi del Jobs Act.

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