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Jobs Act, ecco cosa (non) cambia nella pubblica amministrazione

La verità soltanto la verità. Cerchiamo di spiegare il dilemma/diatriba JOBS ACT pubblico e privato (e come dice una pubblicità in voga in questi girono: ma parliamo italiano!)

E dunque  REGOLE DEL LAVORO:  si estendono o non si estendono? Questa la domanda che le e gli italiani si stanno facendo in questi giorni e la confusione che si è generata tra ministri addetti ai lavori e grilli parlanti.

Noi lo diciamo subito: siamo d’accordo con Pietro Ichino e con il “lavorare per una unificazione tra le regole del diritto del lavoro pubblico e privato”, anche se capiamo bene che la strada è ancora lunga e complicata.

Cerchiamo  di chiarire semplicemente perché la materia non  è automaticamente estendibile al pubblico impiego, dove, non è prevista la fattispecie del licenziamento economico, tanto meno di carattere individuale. Solo nei licenziamenti collettivi vi è una particolare normativa sulla mobilità che potrebbe, con caratteristiche differenti e specifiche, essere equiparata alla funzione svolta, nel settore privato, dalla procedura prevista per i licenziamenti collettivi, ma ne parliamo in seguito.

Per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni vige ancora e sempre l’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive integrazioni, ai quali la cosiddetta Legge Brunetta  Legge 4 marzo 2009, n. 15 in merito non ha portato nessuna modifica.

La Brunetta infatti si è solo limitata a obiettivi di rendimento annuale per ciascuna pubblica amministrazione; a class action: prevista anche nei confronti della pa; a mettere mano alla contrattazione collettiva: una riforma dell’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (Aran); un ruolo della Corte dei Conti: potrà effettuare controlli sulla pa su richiesta di Governo e commissioni parlamentari;  in merito ai dirigenti: previsto un minimo del 30% dello stipendio legato alla produttività e stages di formazione all’estero; identificabilità: obbligo per il personale a contatto con il pubblico il cartellino identificativo o la targa indicante nome e cognome sulla scrivania; premi: incentivi alla produttività per i dipendenti con le valutazioni più alte; trasparenza: disponibilità immediata mediante la rete internet di tutti i dati sui quali si basano le valutazioni. E neanche la Legge sulla sulla trasparenza amministrativa  il decreto legislativo n. 33 del 14 marzo 2013 ha compiuto il passo necessario limitandosi solo ad adempimenti e sanzioni,  P

erò e però le regole appena approvate e quelle attuative future  si applicheranno anche ai lavoratori delle pubbliche amministrazioni (eccetto ovviamente le categorie residuali in regime di diritto pubblico) secondo l’art. 2, comma 2,del decreto legislativo n. 165 del 2001, che recita “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo”, e dall’art. 51, comma 2, del medesimo decreto che dichiara applicabile alle pubbliche amministrazioni lo Statuto dei lavoratori a prescindere dal numero dei dipendenti’’

Dunque non è errata l’interpretazione del Professor Ichino: le future assunzioni nelle pubbliche amministrazioni avverranno  con il contratto di lavoro subordinato a tutele crescenti  e non c’è dubbio che una uniformità tra la normativa pubblico e privato sarebbe finalmente una riforma vera, metterebbe fine al dualismo tra lavoratori pubblici e privati che fino ad ora evidente.

Infatti tutto il processo riformatore fino ad oggi avviato e mai compiuto completamente aveva escluso espressamente via via la pubblica amministrazione.E il perché è sempre nella mancanza di coraggio del portare avanti una riforma che premi veramente il merito e faccia chiarezza. Oggi  nel settore pubblico si applica già la disciplina generale, del recesso del datore di lavoro, ma ci sono così pochi licenziamenti di pubblici dipendenti,applicandosi l’articolo 18, in una situazione di elevatissima imprevedibilità dell’esito del giudizio, se il giudice ritiene il licenziamento non sufficientemente giustificato  e dispone reintegrazione e risarcimento, il dirigente che ha compiuto l’atto si vede imputare la responsabilità per il danno erariale causato. E’ rarissimo che un dirigente sia disposto a rischiare i suoi  risparmi  per licenziare un dipendente: meglio il consueto patto di reciproco riconoscimento del diritto all’inefficienza, per cui il dirigente non mette sotto controllo i dipendenti e questi non mettono sotto stress lui. Comunque quando e se  nel settore pubblico si applicherà la nuova disciplina, non ci sarà certo il rischio di un eccesso di licenziamenti: i controlli interni delle amministrazioni costituiranno sicuramente un forte freno contro eccessi di questo genere.

Ma quanto meno sarà possibile che si attivi il licenziamento disciplinare in una percentuale di casi non ridicolmente bassa come l’attuale e si porrà termine al lunghissimo periodo – tredici anni!-  durante il quale  non è stata attivata una sola procedura di riduzione degli organici in una amministrazione italiana con conseguente messa in mobilità dei dipendenti, come previsto dall’articolo 33 del Testo unico del 2001. E per capire le resistenze ad una uniformità delle normative pubbliche private è bene ricordare che la  legge Biagi  30 del 2003, ad esempio, l’art. 6 recitava: “Le disposizioni degli articoli da 1 a 5 non si applicano al personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano espressamente richiamate”.

Ancora l’esclusione dei rapporti di lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche con specifico riferimento  al lavoro a tempo parziale e alla certificazione dei contratti (articoli 3 e 5). E ancora nella legge Fornero n. 92 del 2012, l’art. 1, comma 7, pur con formula più ambigua specificava: “Le disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, in coerenza con quanto disposto dall’articolo 2, comma 2, del medesimo decreto legislativo.

Restano ferme le previsioni di cui all’articolo 3 del medesimo decreto legislativo”. E il successivo comma 8 affidava al Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, il compito di individuare e definire, “anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”. E questa era ed è la via da seguire,  così come per  esempio la questione dei congedi parentali a ora ancora oggi appesi ad una incertezza che sicuramente non è risolta dal rimando incerto alla contrattazione decentrata.

Per essere ancora più chiari. La legge 28 giugno 2012, n. 92, contenente “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”, al fine di promuovere una cultura di maggiore condivisione dei compiti genitoriali e favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro della famiglia, introduce, in via sperimentale per il triennio 2013-2015, due istituti che si collocano nel contesto della tutela della maternità e della paternità quale disciplinata dal d.lgs. n. 151/2001. Trattasi del congedo obbligatorio di un giorno e del congedo facoltativo di due giorni fruibili dal padre lavoratore dipendente  entro i primi cinque mesi decorrenti dalla nascita del figlio o, in caso di affidamento o di adozione nazionale,  dall’effettivo ingresso del minore in famiglia o dall’ingresso del minore in Italia nei casi di adozione internazionale (art. 4, comma 24, lettera a); Congedi parentali, fruizione a ore  a partire dal 1° gennaio 2013, secondo le disposizioni che saranno adottate dai Ccnl, che dovranno individuare le modalità di fruizione e i criteri di calcolo della base oraria. Si tratta dei congedi che spettano a ciascun genitore lavoratore, nei primi otto anni di vita del bambino, fino a un periodo massimo di sei mesi di astensione (continuativo o frazionato). Per i dipendenti pubblici, invece, l’applicazione del congedo parentale a ore  è  lontana a causa del blocco della contrattazione collettiva nazionale, a cui tocca l’onere di stabilire le modalità di applicazione della nuova formula di congedo. Il Dipartimento della Funzione Pubblica , ha negato l’applicazione del congedo a ore spiegando che per la sua applicazione “l’amministrazione dovrà attendere il recepimento attraverso il contratto collettivo di comparto o la contrattazione quadro”, negando di fatto la possibilità offerta alla contrattazione collettiva secondaria dallo stesso ministero. Mentre invece  per quanto riguarda il contributo economico di 80 euro , per la madre lavoratrice anche della Pubblica Amministrazione ,  vale il cosidetto  bonus bebè ,  erogato per un periodo massimo di tre anni e , come il contributo in contanti concesso per nuove nascite da destinare alle famiglie con un reddito basso sulla base dell’Isee, non fino a 90 mila euro come erroneamente annunciato ma fino a 25.000 euro.  In più si è  aumentato con la legge di stabilità 2014,  il voucher baby sitter a 600 euro al mese dalle attuali 300 previste dalla legge 92/2012. Per usufruire del voucher baby sitter le lavoratrici dovranno fare un’apposita domanda via internet all’ Inps entro il 31 dicembre. La procedura per presentare la domanda online è  più semplice e veloce e non sarà necessario il modello Isee perché la norma riguarderà tutte le neomamme.

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