Skip to main content

Usa, ecco tutti i miopi buyback secondo la Harvard Business Review

“Cinque anni dopo la fine ufficiale della Grande Recessione, i profitti delle imprese sono alti, e il mercato azionario è in piena espansione. Eppure la maggior parte degli americani non stanno condividendo questo recupero: mentre lo 0,1% della popolazione, tra cui tutti gli alti ranghi aziendali raccolgono la maggioranza dei guadagni di reddito, le buone posizioni intermedie di lavoro continuano a scomparire e le nuove opportunità tendono a essere insicure e sottopagate. La redditività delle imprese non si traduce in diffuso benessere economico”.

I BUY-BACK CHE IMPEDISCONO LA VERA RIPRESA IN USA
Questo è l’incipit di un articolo del professore William Lazonick, che insegna all’Università del Massachusetts, e che è comparso sulla Harvard Business Review. Cosa è successo dunque negli Usa? Che la maggior parte degli utili societari sono stati impiegati in riacquisti di azioni proprie: “le 449 società dell’indice S&P 500 che sono stati quotate dal 2003 al 2012 – spiega Lazonick – hanno utilizzato il 54% dei loro guadagni, per un totale di 2.400 miliardi dollari, per fare buy-back, quasi tutti attraverso acquisti sul mercato aperto. In dividendi è finito un ulteriore 37% dei guadagni”. Solo briciole, dunque per gli investimenti in capacità produttiva o per aumenti dei redditi ai dipendenti. Un trend che ha preoccupato anche gli azionisti, tanto che Laurence Fink, presidente e amministratore delegato di BlackRock, a marzo ha scritto una lettera aperta alla corporate America per denunciare l’eccesivo “taglio delle spese di capitale e anche l’aumento del debito per aumentare dividendi e buyback”.

… MA ARRICCHISCONO I BOARD
Le ragioni di questo eccesso sono per il professore del Massachussets tutt’altro che nobili. E stanno nel fatto che “nel 2012 i 500 dirigenti più pagati hanno ricevuto, in media, 30,3 milioni dollari ciascuno: il 42% del loro compenso è venuto da stock option e il 41% da premi azionari. Aumentando la domanda di azioni con il riacquisto sul mercato aperto, aumentano i prezzi, anche solo temporaneamente, e ciò consente alla società di centrare gli obiettivi trimestrali di Eps”.

DALLA CREAZIONE ALL’ESTRAZIONE DI VALORE
Siamo passati insomma dalla creazione all’estrazione del valore: dalla seconda Guerra Mondiale fino alla fine degli anni Settanta le aziende utilizzavano un approccio di reivestimento degli utili per aumentare le proprie capacità e puntavano soprattutto sui dipendenti a cui assicuravano stabilità e stipendi progressivamente maggiori. Poi a fine anni Settanta la cultura è radicalmente cambiata: taglio dei costi e ridistribuzione degli utili agli azionisti, ciò che ha portato “all’instabilità del lavoro e alla disuguaglianza dei redditi”.

BUY-BACK BUONI E CATTIVI
Non tutti i buyback però sono uguali e non tutti minano la condivisione della prosperità. Intanto ce ne sono di due tipi: offerte in asta e riacquisti sul mercato aperto. Nel primo caso l’azienda contatta gli azionisti e offre loro di riacquistare le proprie azioni a un prezzo convenuto entro una certa data a breve termine e si può trattare di un modo per “i dirigenti che hanno quote di proprietà rilevanti di concentrarle ulteriormente nelle proprie mani”, con l’effetto collaterale di “liberarli dalla pressione di massimizzare i profitti a breve termine e di consentire loro di investire nel business”.

MANIPOLAZIONE DEI PREZZI LEGALIZZATA
Ma queste offerte pubbliche costituiscono solo una piccola parte dei riacquisti moderni. La maggior parte sono fatti sul mercato aperto, e “spesso a scapito degli investimenti in capacità produttiva e, di conseguenza, non sono attraenti per gli azionisti nel lungo termine”. Dal 1982 con l’istituzione del Securities Exchange Act da parte della Sec gli acquisti sul mercato aperto sono pressoché illimitati, in base all’articolo 10b-18 a patto di essere autorizzati dal board e che l’ammontare non superi il 25% del volume di scambi medio giornaliero delle precedenti quattro settimane: cosa peraltro non verificabile se non attraverso un’indagine speciale visto che non ci sono obblighi di comunicazione.
“E anche entro il limite del 25%, le aziende possono ancora fare acquisti enormi: Exxon Mobil, di gran lunga il più grande ricompratore nel periodo 2003-2012, può riacquistare circa 300 milioni di dollari di azioni al giorno; Apple fino a 1,5 miliardi di dollari al giorno. In sostanza, l’articolo 10b-18 legalizza la manipolazione del mercato azionario attraverso i buy-back sul mercato aperto”.

DA EXXON A GE, I PIÙ ATTIVI NEI RIACQUISTI
Lazonick ha analizzato anche la top ten delle società che nel periodo di analisi (2003-2012) hanno effettuato buy-back: la prima in assoluto è Exxon Mobil, seguita da Microsoft, Ibm, Cisco System, Procter&Gamble, Hp, Walmart, Intel, Pfizer e General Electric. “Nella maggior parte dei casi la distribuzione agli azionisti è stata di gran lunga in eccesso rispetto agli utili netti, a scapito di innovazione, occupazione e, in settori come la raffinazione petrolifera e il pharma, a costi più elevati per il consumatore finale.

INVESTIMENTI PUBBLICI FINITI IN RIACQUISTI
E non solo. “Exxon Mobil, mentre riceve circa 600 milioni di dollari all’anno in sussidi governativi degli Stati Uniti per l’esplorazione di petrolio (secondo il Center for American Progress), ne spende 21 all’anno in buy-back. Senza investire un dollaro in energia alternativa”. Contemporaneamente, i top manager di Microsoft, Ge, e altre big corporate hanno fatto pressioni sul governo degli Stati Uniti per triplicare gli investimenti in ricerca di energia alternativa e i sussidi, a 16 miliardi di dollari l’anno. “Eppure queste società avevano un sacco di fondi che avrebbero potuto investire in energie alternative per conto proprio. Negli ultimi dieci anni infatti Microsoft e Ge insieme hanno speso un importo simile ogni anno in buy-back”. Anche i dirigenti di Intel hanno a lungo fatto pressioni sul governo degli Usa per aumentare la spesa per la ricerca sulle nanotecnologie. “Nel 2005, l’allora ceo di Intel, Craig R. Barrett, ha sostenuto che “ci vorrà un enorme, coordinato sforzo di ricerca degli Stati Uniti che coinvolge il mondo accademico, l’industria e governi statali e federali per garantire che l’America continui a essere il leader mondiale nella tecnologia dell’informazione”. Ma dal 2001, quando il governo degli Stati Uniti ha lanciato la National Nanotechnology Initiative (NNI), fino al 2013 le spese di Intel in riacquisti di azioni proprie sono ammontati a quasi quattro volte il bilancio totale della NNI”.

E RICARICHI PER IL CONSUMATORE
E nel pharma è successo qualcosa di simile. Negli Usa le medicine costano il doppio che in qualsiasi altro Paese, ma Pfizer e le altre big pharma sbandierano che questi utili consentono di fare ricerca&sviluppo in Usa più che in ogni altro posto al mondo. La verità è che, invece “dal 2003 fino al 2012, Pfizer ha investito un importo pari al 71% dei suoi profitti in buy-back, e un importo pari al 75% dei suoi profitti in dividendi. In altre parole, ha speso più sui riacquisti e dividendi di quello che ha guadagnato… e dunque gli americani pagano i farmaci a prezzi tanto elevati perché le grandi aziende farmaceutiche possano aumentare i prezzi delle proprie azioni”.

CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter