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L’irresistibile (de)crescita della Cina

Mi torna in mente una certa pubblicistica in auge nell’Italia degli anni ’70, quando si magnificavano i tassi di crescita delle economie sovietiche, leggendo le ultime riflessioni della Bce, contenute nel suo ultimo bollettino economico, sull’economia cinese.

Ieri come oggi, anche se con sempre meno fervore, gli osservatori guardano all’economia cinese con invidia più o meno benevola, dimenticando, oggi come ieri, quanto sia più facile far crescere il prodotto in un paese sostanzialmente autoritario e ad economia pianificata. Dove, per dire, il livello degli investimenti pubblici ha ampiamente superato il 40% del Pil. Salvo poi accorgersi che il gigante aveva i piedi d’argilla.

Penserete che sono dettagli. Ma purtroppo non è così. L’economia cinese ha perso gran parte del suo slancio, dopo la crisi del 2008, e lo stimolo interno, garantito dagli investimenti pubblici, ha solo parzialmente compensato il cambiamento del clima internazionale e pure al prezzo di ampi squilibri interni che hanno aperto una visibilissima crepa nel gigante asiatico.

Lo dimostra il fatto che il prodotto sia in costante rallentamento, e la Bce vede ulteriori rischi al ribasso, e che inizino a far capolino anche quei fenomeni che lasciano presagire sviluppi inconsueti e imprevedibili per un paese come la Cina.

Valga come esempio la “serie di casi di insolvenze o pericolo di insolvenza sulle emissioni obbligazionarie e su altri prodotti finanziari”, che, aggiunge la Bce, “”sono senza precedenti in Cina” e segnalano “l’intensificarsi delle tensioni nel settore finanziario”.

E sarebbe strano il contrario. La ragione è presto detta: il livello di prestiti interni, e quindi di debiti, a imprese e amministrazioni locali, è crescito dal circa il 130% del pil nel 2004 a oltre il 200% nel 2014. Una montagna di debito, più o meno celata, peraltro concentrata nel settore immobiliare e delle abitazioni in particolare, che nel 2014, “ha registrato un brusco rallentamento che ha fatto aumentare le scorte e diminuire i prezzi degli alloggi”. Problema aggravato dalla circostanza che l’immobiliare ha ricadute su alcuni comparti dell’industria pesante, come ad esempio quella dell’acciaio.

“Riscontri aneddotici – sottolinea la Bce – mostrano che i costruttori, in particolare le imprese più piccole, si trovano a dover avviare azioni di consolidamento o di ridimensionamento dell’attività. Anche i corsi dei beni utilizzati nelle costruzioni sono diminuiti e l’inflazione calcolata sull’indice dei prezzi alla produzione in Cina è negativa dai primi del 2012, il che esercita pressioni sui margini di profitto di una serie di comparti dell’industria pesante”.

L’alto debito, inoltre, limita “la capacità delle amministrazioni locali di mantenere il ritmo sostenuto di investimenti infrastrutturali osservato alcuni anni fa”.

In sostanza, non è più sostenibile l’idea di pompare il Pil con le costruzioni, essendo di molto diminuito lo spazio di manovrabilità fiscale. Quindi dovremo abituarci a una Cina dove il Pil decrescerà a meno che l’economia internazionale non le restituisca quello slancio sulle esportazioni che le ha garantito il successo nei primi anni del 2000. E neanche è detto che basti.

L’alternativa, che la Bce sottolinea, è che la Cina metta in campo anche lei le sue brave riforme strutturali. A cominciare da quelle che hanno a che fare con la liberalizzazione del mercato dei capitali, ossia il nuovo Eldorado contemporaneo dei finanzieri internazionali.

Alcuni progressi, in tal senso, sono stati fatti. La Bce ricorda, non a caso, il lancio del programma pilota Shangai-Hong Kong Stock connect. Ma anche alcuni azioni di riforma del sistema finanziario e di riordino del sistema previdenziale, mentre rimangono ancora limitate le iniziative per liberalizzare l’economia e riformare le imprese pubbliche, sulla quale peraltro grava buona parte del debito contratto con altre entità pubbliche. Che è un modo elegante per ricordare che comunque stiamo parlando della Cina.

E questo lo sanno anche i cinesi. Tanto è vero che hanno delineato il 2020 come orizzonte temporale entro il quale attuare gran parte delle riforme necessarie per fare della Cina un paese più moderno. Più autenticamente capitalistico.

Bisognerà vedere se tale modernità sarà conciliabile con la forma politica cinese.

Ricordiamo tutti cosa è successo in Urss.

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