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Gli alti e bassi del Patto di Sanità Digitale

meningite

Dopo una gestazione piuttosto lunga ed articolata, finalmente abbiamo un testo del “Patto di Sanità Digitale”, ossia di quell’importantissimo addendum al “Patto Stato-Regioni per la Salute” fortemente voluto dal Ministro Lorenzin ed annunciato nel luglio 2014 durante la tre giorni di “Digital Venice”.

Il documento presentato a Venezia l’anno scorso ha subito corpose modifiche, moltissime delle quali finalizzate a migliorarlo nel suo complesso. Ci sono voluti più di 10 mesi per produrre 7 pagine che potranno ancora subire modificazioni qualora la Commissione Salute della Conferenza Stato-Regioni ne intraveda la necessità, quindi possiamo immaginare che la versione definitiva sarà approvata in autunno 2015, con un anno di ritardo rispetto ai tempi originariamente previsti.

Vale la pena di tornare indietro nel tempo, arrivando al momento della genesi: aprile 2014, Stati Generali della Salute. Nel corso di una tavola rotonda, alla presenza del Ministro, il sottoscritto – insieme al Presidente di Confindustria Digitale, Elio Catania – lanciò l’idea di un piano strategico per la sanità digitale finalizzato a capire come trovare fra i 4 e i 5 miliardi di Euro da investire per generare risparmi per il SSN stimabili intorno ai 7 miliardi di Euro all’anno.
I dati di dettaglio relativi alla stima dell’investimento e ai risparmi conseguibili erano frutto di un lavoro di analisi piuttosto impegnativo fatto – a titolo completamente gratuito – dall’Osservatorio Netics e dal Centro Studi Catalis di Federsanità ANCI fra il 2012 e il 2013.

L’idea complessiva del “Patto” era piuttosto semplice: se con 5 miliardi una tantum si risparmiano 7 miliardi all’anno, c’è sicuramente spazio per operazioni di finanza di progetto. Proviamo a vedere se ci sono operatori finanziari interessati alla partita, e diamo vita a un circuito virtuoso di operazioni di partenariato pubblico-privato.

Investimento zero a carico del SSN: se tutto funziona, il financer si remunera abbondantemente e “tutti vincono”.

Ovviamente, prima di partire con gli investimenti, è necessario dar vita a veri e propri proof of concept, dove le componenti private del futuro partenariato si esercitano – a loro completo investimento e senza un Euro di esborso di fondi pubblici – per verificare la fattibilità, la sostenibilità e il ritorno economico-finanziario di ogni singola iniziativa.

Un modello molto semplice e “pulito”: il SSN non rischia un Euro, se le cose funzionano tutti se ne avvantaggiano, se le cose non funzionano lo scopriamo durante il proof of concept e quindi non si producono disastri.

A grandi linee, la “nuova” versione del Patto è sostanzialmente identica a quella originale. E’ stata significativamente “sfumata” la presenza dei market player privati e di altri attori centrali afferenti a vario titolo al SSN (i medici di famiglia, i farmacisti, l’industria farmaceutica, i produttori di dispositivi e di medical devices) all’interno della governance, a fronte di un considerevole allargamento della platea dei soggetti istituzionali coinvolti. Ma questi sono dettagli.

Ciò che rischia di compromettere la natura originaria del Patto è, piuttosto, un decisivo riorientamento delle iniziative: il patto “orginale” era fortemente orientato ad iniziative di partenariato finalizzate a mettere in capo alla componente privata la costruzione di soluzioni “chiavi in mano” a partire dalla reingegnerizzazione dei processi. In sostanza, il privato avrebbe dovuto studiare il problema, identificare la soluzione in termini di cambiamento dei processi e “assemblare” le tecnologie in modo da costruire un servizio finalizzato a razionalizzare un determinato ambito di applicazione.

Nella versione attuale, il Patto sembra voler mantenere tutte le attività di analisi e reingegnerizzazione dei processi di erogazione dei servizi sanitari e socio-sanitari in capo alla componente pubblica, aprendo a iniziative di partenariato solamente per quanto riguarda la realizzazione di piattaforme tecnologiche.

E qui cominciano i problemi, come insegnano non pochi casi di fallimento di iniziative di partenariato avviate a livello internazionale e caratterizzate da un eccesso di focalizzazione sulla tecnologia e dal mantenimento delle scelte “di processo” in capo al pubblico.

Chi può, ad esempio, investire ingenti quantità di denaro nella realizzazione di piattaforme per la logistica sanitaria senza poter incidere sugli aspetti organizzativi capaci di determinare il successo o il fallimento della piattaforma medesima?

Chi può investire nell’approntamento di servizi complessi e integrati di teleassistenza domiciliare senza poter “dire la sua” sugli obiettivi di deospedalizzazione da assegnare al top management delle aziende sanitarie e ospedaliere?

Se tutto diventa un più o meno articolato piano di dispiegamento di piattaforme, peraltro poco cautelativo nei confronti degli investitori anche sotto il profilo della proprietà intellettuale, si rischia di perdere attrattività nei confronti di soggetti in possesso di forti competenze di organizzazione e revisione di processi e di non trovare – in concreto – sufficiente capitale di rischio capace di alimentare il circuito virtuoso.

Gli attuali operatori incumbent sul mercato IT per la Sanità, con davvero pochissime eccezioni, non hanno nessun interesse nel mettere in discussione le loro quote di mercato e le loro rendite di posizione accollandosi rischi come quelli connessi a modelli di performance based contracting, dove si portano a casa margini solamente se tutto funziona e se il SSN risparmia.

La sanità digitale, potrà sembrare paradossale ma non lo è, non è un business per gli informatici. Per meglio dire: è un business dove i vendor di “informatica” possono incrementare anche molto significativamente i loro ricavi ma lo possono fare solamente se rivoluzionano completamente i loro business model.

E non è un caso se nei Paesi dove la sanità ha recuperato significativamente efficienza ed efficacia anche attraverso operazioni di completa digitalizzazione della filiera di erogazione dei servizi, il ruolo centrale lo hanno giocato le grandi firm della consulenza organizzativa focalizzata sulla reingegnerizzazione dei processi.

Se il Patto di Sanità Digitale vuole essere un punto di reale svolta per il SSN e un vero momento di discontinuità, di tutto ciò bisognerà tenere conto.

Nessuno spazio per avventurieri in caccia di fondi europei/statali/regionali coi quali finanziarsi operazioni di rifacimento di software vetusti, e porte aperte a chiunque voglia “per davvero” investire, assumendosi il rischio ma anche garantendosi gli “onori” (e i ricavi) se le cose funzionano e se il SSN recupera efficienza.

Piena tutela della proprietà intellettuale, magari garantendo diritti di “last call” (ammessi dalla normativa sugli acquisti di beni e servizi della PA) in sede di gara conseguente all’ultimazione positiva dei proof of concept.

Perché i furbetti sono sempre in agguato, ma rappresentano l’unica categoria della quale il SSN non sente davvero più il bisogno.

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