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Perché agli Usa serve un nuovo Kissinger

La domanda è se il democratico Barack Obama onorerà il Premio Nobel per la pace di cui fu insignito appena entrato alla Casa Bianca, sette anni fa, impiegando l’ottavo e ultimo anno di mandato presidenziale con un’impresa militare diretta in Siria per lasciare un’impronta personale analoga a quella che il repubblicano George W. Bush ha lasciato in Afghanistan e in Iraq. Sarebbe paradossale, ma confermerebbe che la politica estera degli Stati Uniti, dopo il collasso dell’Unione Sovietica all’inizio degli Anni Novanta, non riesce più ad equilibrare le due leve della forza (militare) e della diplomazia con la stessa sagacia e lungimiranza che fu messa in campo quando ad ispirarla e dirigerla c’era Henry Kissinger, adesso 92enne, ma ancora lucidissimo (e critico delle scelte della Casa Bianca).

Con Kissinger, gli Stati Uniti avevano in mano l’iniziativa strategica: decisero di porre fine all’intervento militare in Vietnam, iniziato da John Fitzgerald Kennedy e portato in un vicolo cieco da Lyndon Johnson; aprirono alla Cina di Mao Tse-tung, reinserendola nel grande gioco diplomatico mondiale, ma con la prospettiva di inserirla anche sul piano economico; avviarono con l’Urss il negoziato per la limitazione degli armamenti strategici; bloccarono la serie delle guerre arabo-israeliane. Dopo, l’iniziativa passò agli altri e agli Usa non rimase che la scelta tra le possibili risposte: nei confronti dell’ex Urss, della ex Iugoslavia, dell’Iraq di Saddam Hussein, della Cina post maoista diventata la “fabbrica del mondo”, degli attacchi dell’11 settembre 2001 (guerra in Afghanistan e in Iraq) e, più recentemente, degli sviluppi della “primavera araba” (Libia, Siria e Isis). A Obama bisogna riconoscere una linea di coerenza nei confronti dell’Iran: disse, a inizio presidenza, di volere impostare il rapporto su nuove basi, e lo ha fatto, ma tra molte incertezze e forse nell’illusione di isolare la questione dal contesto mediorientale.

Potrebbe essere utile, a questo punto, rileggere il “grande disegno” kissingeriano. Non solo per gli Stati Uniti ma soprattutto per l’Europa, dove molti leader e responsabili della politica estera si ritengono altrettanti kissinger, ma con la k minuscola. È nell’Unione europea, in particolare, che si tende a sorvolare sul presupposto su cui si fonda il pensiero kissingeriano, e cioè la permanenza del soggetto-Stato come primo e insostituibile protagonista e responsabile del benessere dei propri cittadini e della pace mondiale. Come è noto, il suo modello era il Congresso di Vienna del 1814-15 che ristabilì tra le potenze un equilibrio che era stato sconvolto da Napoleone. Principio dell’equilibrio, quindi, espressione senza dubbio di una visione aristocratica, ma concorde su un punto: che le inevitabili modificazioni di influenze potevano essere compensate e non dovevano degenerare in grandi conflitti.

Come adattare questo schema a un mondo uscito da due guerre mondiali? Nelle sue prime riflessioni sulla realtà internazionale, Kissinger sostenne che l’ingresso nella storia dell’arma atomica avrebbe ridotto lo spazio discrezionale alla politica estera di uno Stato in quanto lo avrebbe costretto, se avesse voluto mantenersi nel campo della razionalità, a rinunziare alla guerra totale, per cui rimanevano possibili solo guerre limitate, gestite in modo accorto per evitare uno scontro diretto tra potenze atomiche, lasciando ampio spazio alla diplomazia. Dapprima come studioso, poi come consigliere del Presidente per la sicurezza nazionale, quindi come Segretario di Stato, Kissinger si è impegnato a trovare un compromesso soddisfacente tra le due superpotenze nucleari (Usa e Urss) e a risolvere le crisi locali circoscrivendole, affinché nessuna parte perdesse del tutto la faccia né fosse compromesso il prestigio delle maggiori potenze interessate.

Il collasso dell’Urss e il nuovo profilo della Russia di Vladimir Putin, l’emergere della Cina come seconda potenza economica mondiale, la riunificazione tedesca e la leadership economico-politica conquistata dalla Germania in Europa, la globalizzazione economica che ha fatto emergere nuovi protagonisti in campo commerciale e monetario (nascita dell’euro e ambizioni dello yuan), la finanziarizzazione dell’economia e la crisi economico-finanziaria non ancora sconfitta a otto anni dal suo scoppio – costituiscono il nuovo scenario in cui applicare il modello kissingeriano, ma gli Stati Uniti non sembrano in grado di adattarlo ai nuovi bisogni o, semplicemente, non lo prendono in considerazione.

Da qui loro posizione ondivaga sulle principali questioni internazionali: rafforzamento della Nato in funzione anti russa profittando della vicenda ucraina, considerata più sotto l’aspetto ideologico che su quello realistico, ma, al contempo, accettazione di un ruolo della Russia nella guerra contro l’Isis; apertura all’Iran ma senza un chiarimento di rapporti con l’Arabia Saudita che ne è l’avversario storico per motivi religiosi e petroliferi; incertezza tra una posizione di principio sulla Siria (“Bashar al-Assad se ne deve andare”) e una via d’uscita negoziale; incapacità di gestire la situazione in Afghanistan, in Iraq e in Libia senza riconoscere che, in alcuni casi, e almeno per un certo periodo di tempo, la democrazia non è esportabile. A ciò ai aggiunga l’ambiguità nei confronti della Cina: considerata partner economico primario ma anche un avversario da assediare con il Trattato transpacifico che la esclude, ma contro la volontà e gli interessi di due partner essenziali per Washington come il Regno Unito e la Germania, e da sfidare in termini militari sulla questione della sovranità sulle Isole Spratley.

Non c’è dubbio che il nuovo contesto della globalizzazione, spostando l’attenzione dal confronto ideologico-militare al confronto economico-finanziario, abbia offuscato la tradizionale visione del ruolo degli Stati, impotenti di fronte al movimento dei capitali e alle speculazioni finanziarie, alle delocalizzazioni produttive, agli incroci commerciali e, in modo sempre più drammatico, alle migrazioni di massa comunque motivate. Eppure le richieste dei cittadini non si rivolgono alle organizzazioni internazionali né alla Fed né alla Bce né alla Wto, ma ai governi nazionali che essi legittimano con il loro voto e che non si possono nascondere dietro soggetti inaccessibili: il “mercato”, lo “spread”, la Commissione europea, il Quantitative easing e simili.

Pertanto, se si vuole trarre una indicazione dal pensiero e dall’opera di Kissinger, questa non può essere che la rivalutazione del ruolo, cioè della responsabilità, degli Stati, conservando come guida la volontà – che si incarna nei leader politici – di perseguire, in un cointesto di crisi, il miglior punto di equilibrio possibile, negoziabile tra gli Stati attraverso una considerazione realistica degli interessi di ciascuno, bilanciando ciò che uno Stato considera irrinunziabile con ciò che è disposto a cedere senza perdere la faccia e con sacrifici ben minori di quanto costerebbe un grande conflitto militare. Ciò non esclude che avvengano dei cambiamenti a livello di potenza, inevitabili da un punto di vista storico, ma il punto è il modo in cui essi avvengono: senza rotture e rischi troppo alti, senza quei colpi di testa che possono innescare una reazione a catena incontrollabile. In fondo, Kissinger ci ricorda che non dobbiamo rinunziare alla razionalità.

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