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Gli Stati Uniti dopo la cura Obama

L’ultimo discorso sullo stato dell’Unione è stato in realtà un discorso sullo stato della disunione. Lo ha ammesso lo stesso presidente: il suo maggior rammarico è lasciare un’America lacerata. Ciò conta non solo per gli americani ma per il resto del mondo. Non c’è dubbio che questo rafforza i nemici, da Putin all’Isis, e rende l’Iran capace di sbeffeggiare “il grande satana” proprio nel giorno del discorso solenne del presidente, catturando una decina di marinai che forse erano fuori rotta.

Tra minacce vere, sparate demagogiche e sbruffonate da bulli, sembra che pochi oggi prendano sul serio un’America spaccata da odi partigiane, che non crede in se stessa, con un’opinione pubblica convinta che il Paese vada nella direzione sbagliata, nonostante i buoni risultati economici, nonostante abbia creato dal 2008 in poi 13,5 milioni di posti di lavoro, cioè 7,5 in più di quelli cancellati dalla recessione.

Tutto il discorso è stato dominato dal clima elettorale, anzi, dal convitato di pietra: Donald Trump. Obama pur senza nominarlo ha risposto a lui. E lo ha fatto anche Nikki Haley, la repubblicana governatrice del Sud Carolina, scelta, lei di origine indiana e di collocazione centrista, per la risposta al presidente, proprio per tenere a distanza Trump. Tutti in questo modo hanno finito per ammettere che il vero protagonista della campagna è quel cavallo pazzo, un picconatore, un folle shakespeariano, capace di esprimere quel che la gente pensa. Un errore tattico probabilmente, ma inutile negare che Trump interpreta umori profondi e radicati.

Molti mesi fa, quando lo consideravano un pagliaccio anche celebrati commentatori e corrispondenti dei giornaloni italiani, su Formiche.net abbiamo invitato a prenderlo sul serio. Adesso, a forza di sottovalutarlo, è diventato addirittura l’uomo che detta l’agenda ai repubblicani e il bersaglio principale nell’ultimo solenne discorso presidenziale. Complimenti ai soloni, tricolore o a stelle e strisce.

Ci sarà tempo per snocciolare l’elenco delle cose fatte (come la riforma sanitaria) e di quelle non fatte, delle promesse realizzate e di quelle mancate. Il problema a questo punto è chi sostituirà Obama alla Casa Bianca. La questione chiave è diventata la sicurezza. Quindi, ci vuole un presidente credibile nella guerra all’Isis e nella lotta contro tutti i nemici dell’America, lo dicono i repubblicani, lo pensano anche i democratici. Chi è e come farà? Spianando il Califfato con le bombe, semplifica Trump, ma anche lui sa che ci vogliono gli scarponi sulla sabbia e si guarda bene dall’ammetterlo di fronte ai suoi assatanati sostenitori.

Hillary Clinton sulla carta ha l’esperienza diplomatica giusta, ma come segretario di Stato ha commesso molti errori che le verranno rinfacciati senza pietà. Soprattutto, Hillary ha un problema non facile da risolvere qui e ora: da una parte deve staccarsi da Obama, dall’altra non può rinnegare quella eredità. E’ il lato in fondo più debole della candidatura clintoniana, più ancora del carattere o della sua antipatia personale.

Obama ieri sera ha mancato di lanciare un messaggio urbi et orbi in grado di segnare la sua presidenza alla stregua di quelle di Reagan o di Clinton. Il New York Times conclude l’analisi del discorso dicendo che ha ancora 373 giorni per farlo. Ne ha avuti già a disposizione oltre duemila e se non c’è riuscito in sette anni non si vede come possa farlo quando diventa un’anatra zoppa.

Così, Barack Obama, il primo presidente nero che aveva esordito lanciando un grido di speranza (Hope, ricordate?), passa in consegna al successore una grande incompiuta, con l’America divisa e impaurita, una politica rancorosa e sostanzialmente impotente, priva di idee e di strategia, magari vogliosa di reagire, ma che non sa agire. Un bel guaio per tutti.

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