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Petrolio, tutti gli effetti (non solo economici) del ritorno dell’export Usa

Gli Stati Uniti tornano a esportare petrolio dopo la rimozione delle restrizioni da parte del Congresso. E mentre le prime petroliere a stelle e strisce approdano in Europa (e si prepara il ritorno all’export per l’Iran dopo l’accordo sul nucleare con gli Usa), l’Arabia Saudita si muove sullo scacchiere delle potenze mondiali decisa a difendere il suo primato di primo esportatore di greggio.

IL RITORNO DEL PETROLIO AMERICANO

A dicembre scorso il Congresso americano ha dato il via libera alla rimozione dei limiti all’export di petrolio, scattati nel 1975 dopo che l’embargo arabo aveva causato uno shock all’economia. Senza le restrizioni, gli Stati Uniti possono esportare da subito greggio, così come già fanno per i prodotti raffinati, continuando la scalata iniziata negli anni scorsi con il boom dello shale e del fracking, che hanno reso gli Usa il maggiore produttore di petrolio e gas al mondo. Questa ascesa ha avuto forti ripercussioni sui prezzi e sugli equilibri geopolitici, aprendo una “lotta” all’interno dell’OPEC e, soprattutto, un braccio di ferro con l’Arabia Saudita.

Molti analisti leggono nell’atteggiamento del cartello, ostinato a lasciare i livelli di produzione invariati nonostante il crollo dei prezzi, il desiderio di ostacolare il petrolio americano. Con il greggio ai minimi le aziende statunitensi attive nella costosa pratica del fracking incontrano difficoltà; alcune sono state costrette a rivedere i propri piani o addirittura a chiudere.

La rimozione delle restrizioni all’export di greggio Usa non si traduce necessariamente in un boom immediato di vendite all’estero di petrolio americano, che al momento non è più economico degli altri. Ci sono poi da calcolare i costi di trasporto, che potrebbero rendere anti economico il greggio Usa per le raffinerie estere. Ma un meccanismo si è messo in moto e i trader esultano.

UN INCENTIVO AI FLUSSI DI IMPORT-EXPORT

“Non si tratta di grandi quantità di greggio, ma siamo solo all’inizio”, ha commentato sul Financial Times Olivier Jakob di Petromatrix, società di consulenza svizzera, all’arrivo delle due petroliere Usa in Europa (una, la “Theo T” di Panamax, approdata al porto di Fos, in Francia, l’altra, la Seaqueen, a Rotterdam). “Le esportazioni di petrolio americane finiranno col trasformare l’industria, permettendo non solo vendite maggiori all’estero di shale Usa ma anche di petrolio canadese. Per i trader è una grande opportunità, perché gli Usa ora esporteranno ma anche importeranno di più”.

La decisione di cancellare il divieto di esportazioni di greggio dagli Usa ha infatti provocato l’effetto collaterale di riaprire ai trader arbitraggi dimenticati, nota Il Sole 24 Ore. Il Wti, che funge da riferimento per i prezzi Usa, è tornato a costare più del Brent.

Al tempo stesso, sulla costa orientale degli Usa, importare greggio può essere più conveniente che acquistarlo dai produttori locali, visti il calo dei prezzi e gli alti costi di produzione dello shale oil. Sulla base dei traffici marittimi e di testimonianze di trader, Reuters stima che questo mese stiano attraversando l’Atlantico, diretti negli Usa, almeno 500mila barili al giorno di greggi leggeri. Tra le provenienze ci sono la Norvegia, la Nigeria e l’Angola, ma anche la Russia: le importazioni di greggio americane dalla Russia sono scese da più di 100mila barili al giorno nel 2012 a meno di 20mila barili al giorno nel 2014, ma l’anno scorso hanno ripreso a salire.

Il Financial Times sottolinea che, pur se la produzione americana di petrolio è cresciuta di quasi il 50% dal 2011, gli Stati Uniti restano un importatore netto di greggio e ancora quest’anno le importazioni di petrolio degli Usa continueranno a salire, perché i prezzi bassi impediscono di “pompare” sull’output interno mentre incoraggiano la domanda locale.

TENSIONI TRA ARABIA SAUDITA E IRAN

Il rientro degli Stati Uniti sul mercato petrolifero si inserisce però in un contesto che non è solo economico o finanziario, ma politico. E mentre gli Usa tornano ad essere esportatori anche l’Iran si riaffaccia sullo scacchiere. L’accordo sul nucleare entrato in vigore fra l’Iran e la coalizione detta dei P5+1 (Usa, Russia, Cina, Regno Unito e Francia, con la mediazione dell’Unione europea) ha l’obiettivo di impedire all’Iran di produrre testate nucleari e, al contempo, abolisce le sanzioni rimettendo Teheran sul mercato internazionale del petrolio.

L’Iran è fra i cinque Paesi con le maggiori riserve petrolifere al mondo (150 miliardi di barili, pari al 10% delle riserve mondiali verificate); insieme, Iran e Arabia Saudita possiedono un quarto di tutte le riserve petrolifere note del pianeta. Ora Teheran punta a riguadagnare la sua posizione di secondo produttore OPEC dopo Riad. In quest’ottica va letta, secondo molti analisti, l’esplosione della nuova crisi diplomatica fra Arabia Saudita e Iran, il primo a maggioranza sunnita e l’altro sciita, acuita dall’esecuzione dell’Iman sciita Nimr Al Nimr per mano dei sauditi.

Le tensioni tra Arabia Saudita e Iran, più il ritorno dell’Iran all’export, non faranno che rendere ancora più remote le chance che l’OPEC tagli la produzione per risollevare i prezzi, secondo gli analisti. “Arabia Saudita e Iran non hanno nessuna intenzione di cooperare per sostenere i prezzi, che potrebbero scendere ancora”, dice Giorgio Cafiero, ceo di Gulf State Analytics. Barclays pensa addirittura che, pur di non fare favori all’Iran, l’Arabia potrebbe aumentare l’output, con un crash ulteriore dei prezzi.

Non è la prima volta che Riad adotta la politica di abbassare i prezzi per espellere dal mercato i concorrenti. Lo ha già  fatto nel ’74, quando ha spinto l’OPEC a diminuire le esportazioni solo del 5% provocando la quadruplicazione del prezzo del petrolio, poi nel 1985, nel 1988 e soprattutto nel 1998 (in occasione del rientro dell’Iraq del dopo Saddam Hussein).

Ora tra i due contendenti mediorientali si inserisce il presidente Usa Barack Obama, che ha fortemente voluto l’accordo sul nucleare con l’Iran ma cerca anche di preservare una forma di stabilità nella più turbolenta regione del mondo. Il “riavvicinamento” tra Usa e Iran (per quanto accordi regionali di vasta portata siano ben lontani) incrina i rapporti con Riad.

LA CROCIATA ANTI-USA DI RIAD

A ben vedere, del resto, l’Arabia Saudita non vuole solo ostacolare il rientro di Teheran come esportatore di petrolio e potenza politico-economica nel Medio Oriente. Il rifiuto di tagliare l’output per sostenere i prezzi è un colpo inferto proprio allo storico “alleato” americano e ai suoi produttori di shale oil. “Con il fracking i produttori nord-americani hanno ritrovato un business, prima produrre petrolio in America non era conveniente. L’Arabia Saudita sta facendo in modo di distruggerli”, afferma Danilo Onorino, portfolio manager di Dogma Capital.

Infatti, il prezzo del Brent è così basso che i produttori Usa di shale oil hanno dovuto ridurre il loro output e tagliare i costi e la Us Energy Information Administration prevede che la produzione Usa di greggio diminuirà ancora di mezzo milione di barili al giorno nel 2016, perché le aziende americane taglieranno la produzione e qualcuna finirà in bancarotta. Già 16 produttori Usa di petrolio sono andati falliti l’anno scorso.

I SAUDITI GUARDANO ALLA CINA

La crociata di Riad tuttavia le si potrebbe ritorcere contro: anche l’Arabia Saudita ha bisogno dei soldi del petrolio, da cui nel 2015 ha ricavato il 73% delle sue entrate. A ottobre il Fmi ha detto che l’Arabia Saudita potrebbe finire in bancarotta tra cinque anni se non diversifica le sue fonti di reddito. Per questo Riad si preoccupa e, mentre vara tagli alla spesa pubblica e nuove tasse, guarda anche a nuovi alleati. Il colosso petrolifero Saudi Aramco, la società statale che è il maggior produttore di petrolio a livello globale, sta conducendo nuove trattative per investire in raffinerie cinesi. Un segnale economico, e, per alcuni osservatori, anche geopolitico, dettato dall’indebolimento delle relazioni con Washington dopo l’accordo sul programma nucleare di Teheran.

La compagnia saudita sta discutendo con China National Petroleum Corporation e Sinopec – produttori controllati dal governo di Pechino – di opportunità di investimento nei settori della raffinazione, del marketing e dei prodotti petrolchimici. Tra il Regno e la Cina, gli scambi energetici sono destinati a infittirsi.

“La Cina importa 7 milioni di barili al giorno, ha fatto esplodere la richiesta di petrolio. È vero che la domanda sta rallentando, ma i consumi sono comunque in crescita. La Cina, come l’Asia, conta tantissimo”, ha sottolineato il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli, che conferma come il petrolio sia oggi per l’Arabia Saudita “uno strumento attraverso cui danneggiare l’Iran”. Washington rientra sul mercato in un momento caratterizzato da forti tensioni, dovute al crollo del prezzo del petrolio a causa dell’alto livello di produzione dell’Arabia Saudita in funzione sia anti Iran che, ribadisce a Formiche.net Tabarelli, anti Usa.

Altra mossa di Riad, annunciata a inizio gennaio, è la possibile quotazione in Borsa di Saudi Aramco. Una scelta che potrebbe aprire nuovi scenari interni e che avrà, forse, conseguenze energetiche e geopolitiche, in uno dei momenti più complicati per il Regno, messo alla prova da una crisi dinastica, dagli effetti della strategia dei prezzi bassi del greggio e da tensioni crescenti con l’Iran sciita. Sul prezzo del petrolio, dal Forum di Davos – racconta il Financial Times – il presidente di Aramco, Khalid al-Falih, ha detto che i i livelli attuali non dureranno e che si prevede il recupero del mercato nel 2016, perché un prezzo al di sotto dei 30 dollari al barile è “irrazionale”. Il Paese, però, continua a mantenere alto il livello di produzione, gli Usa tornano a esportare greggio dopo l’embargo e anche Teheran si prepara a vendere petrolio sui mercati mondiali.

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