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Tutti i trump di Donald Trump

Nomen men: Trump è davvero un trump, l’asso nella manica, la carta che fa saltare il banco. Anche chi lo giudicava un clown fino a poche settimane fa, oggi lo considera un pericolo per l’America e per il mondo oltre che una minaccia per i conservatori moderati che sembrano sul punto di dissolversi in tutto l’Occidente. Fioriscono, dunque, molte analisi, economiche, sociologiche, politiche. A noi che già da mesi su Formiche.net abbiamo invitato a prendere sul serio questo cavallo pazzo, nessuna sembra del tutto convincente.

Prendiamo la spiegazione economica. Il New York Times ha pubblicato un bell’articolo di Thomas Edsall che si chiede perché Trump adesso. E snocciola i dati di fatto: la ripresa economica americana è più apparente che reale, la classe media è scontenta e depressa, i salari medi in termini reali (cioè senza inflazione) sono di pochi centesimi superiori a quelli del 1964, addirittura 20,67 dollari contro 19,18. Certo, la globalizzazione che gli Stati Uniti hanno lanciato e poi cavalcato è tornata indietro come un boomerang, così come la rivoluzione tecnologica, togliendo posti di lavoro, tagliando i redditi medi. Eppure tutto questo non è successo oggi. Non solo: nel 2008 le cose non andavano meglio; perché allora è stato eletto Barack Obama che non aveva alcuna ricetta per affrontare la grande crisi se non portare avanti le politiche varate, sotto George W. Bush, dalla trojka Paulson, Bernanke e Geithner?

Esiste una “Trump belt”, una cintura dello scontento che va dal Mid West fino al New England, scrive Edsall. Scontento anche e soprattutto contro l’establishment. Vero, ma allora perché votare per un uomo dell’establishment, un lupo di Wall Street, un magnate che prospera nel lusso e si circonda di Barbie poppute alle quali dona ricchi conti in banca quando poi chiedono il divorzio?

I repubblicani sono divisi e questo favorisce Trump: è l’argomento dei politologi che conoscono bene il Grand Old Party. Anche questo è esatto. La coalizione che ha portato al successo Bush, fatta di intellettuali neo-con, tradizionalisti evangelici, libertari che poi daranno vita ai Tea parties e vecchi elefanti dell’era Nixon (alla Cheney e Rumsfeld), si è spappolata, ciascuno ha il proprio candidato nessuno dei quali ha un appeal trasversale. Anche questo è sacrosanto, ma non spiega l’onda lunga che spinge Trump ormai da molti mesi.

Attenzione, quest’onda non è poi così lunga, avverte da destra Jonathan Last sul Weekly Standard, già bibbia dei neocon, e spiega le cinque ragioni per le quali Trump è più debole di quel che sembra. Tutti argomenti intelligenti. Per esempio che Trump non sta guidando una rivolta dall’interno del partito, ma un takeover ostile del G.O.P. E che, alla fine della fiera, può contare su meno delegati del previsto. Non fa una piega, solo che gli altri ne hanno ancora meno.

Martin Wolf sul Financial Times avanza un paragone con Berlusconi (ricordando che in ogni caso il Cavaliere non voleva deportare nessuno, tanto meno i musulmani) e parla sì di populismo, ma piuttosto di pluto-populismo altrettanto negativo a suo avviso. L’editorialista del FT, tra voli pindarici sulla crisi della Repubblica romana e sui padri fondatori degli Usa, coglie un aspetto importante anche se non lo porta fino in fondo.

E se fosse che dopo sette anni di vacche magre, la propaganda pauperistica, la risposta basata sull’austerità, sul tirare la cinghia, ridurre i debiti, contenere i salari, tagliare il welfare, avesse stufato? A destra forse ancor più che a sinistra. E se la Trump belt fosse attratta dal messaggio semplificato, quanto efficace, che risale agli albori del paese? Qual è lo slogan più efficace di Trump, forse l’unico davvero individuabile con chiarezza? “Facciamo l’America di nuovo grande”. In questo c’è un rimando a Ronald Reagan che tocca corde molto popolari e non necessariamente populiste. Certo, si può dimostrare conti alla mano che non è così che l’America torna grande, ma nessun altro è in grado finora di presentare un’immagine proiettata verso il futuro, il benessere, il primato. Arricchitevi, o meglio sono ricco e anche voi potrete diventarlo. Sognate il vecchio sogno americano.

Anche la sua propaganda anti-islamica tocca un nervo scoperto. E’ vero, come dicono gli stessi conservatori, che espellere i musulmani è anti-costituzionale e non si può eleggere un presidente che per prima cosa vuol violare la Costituzione. Ma non si può ignorare che l’Islam così come si presenta in questa prima fase del XXI secolo, cioè politicizzato, fondamentalista, retrogrado, egemonizzato da una minoranza radicale e violenta, fa paura anche negli Stati Uniti non solo in Europa. In realtà, dovremmo dire che è una minaccia per gli stessi musulmani e se loro non lo capiscono, sono sordi, ciechi e muti. I liberal americani finora avevano detto che era un problema europeo perché nel Vecchio continente è fallita quella integrazione che invece è riuscita nel nuovo. Adesso nemmeno loro ne sono più tanto convinti.

Fanno bene gli analisti progressisti e quelli conservatori a mettere in evidenza i punti deboli di Trump, il suo fianco scoperto, le mistificazioni di una trucida quanto cinica propaganda. Ma per batterlo bisogna innanzitutto ragionare sui suoi punti di forza e contrapporne altri, possibilmente più efficaci e convincenti. Se ci sono.

Stefano Cingolani

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