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L’Italia tra Trump e Macron. Le sfide dell’Unione europea secondo Nelli Feroci

La questione dell’esercito europeo che ha fatto litigare Donald Trump ed Emmanuel Macron è un falso problema. Il Vecchio continente deve assumersi maggiori responsabilità nella difesa, ma non può e non deve sostituirsi all’Alleanza Atlantica; gli Stati Uniti restano un partner indispensabile. Parola di Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), diplomatico di carriera, già rappresentante permanente d’Italia presso l’Unione europea e commissario europeo. Formiche.net lo ha raggiunto per parlare dei temi caldi dell’Ue, dalla Brexit alle divergenze registrate sul complesso nodo libico. Intanto, tra il governo giallo-verde e l’amministrazione Usa pare esserci un certo feeling. Per l’Italia potrebbe essere positivo, ma occhio a non cadere nel tranello di Trump e Putin: indebolire l’Europa.

In occasione del centenario della fine della Grande guerra, Trump e Macron si sono scontrati sul tema di “un vero esercito europeo”. Quanto è profonda la crisi tra Francia e Stati Uniti? È solo un fatto di antipatia tra i due presidenti?

Ci sono sicuramente difficoltà, incomprensioni e divergenze; è inutile nasconderlo. Non è solo questione di chimica personale o di problemi caratteriali; ma l’occasione dell’ultimo scontro è un falso problema. Il contrasto sull’ipotesi di creare un esercito europeo ha poco fondamento. Non c’è, infatti, in Europa alcuna intenzione di creare un esercito comune che si sostituisca alle forze dell’Alleanza Atlantica. L’obiettivo è piuttosto il rafforzamento delle capacità dell’Unione nella dimensione della difesa, così da disporre uno strumento comune credibile per la gestione di crisi fuori area. Si tratta di rafforzare le capacita di intervento e di crisis management più che di creare un vero esercito comune. Per questo, credo che l’ultimo episodio tra Trump e Macron, che sembrerebbe testimoniare una ulteriore difficoltà di intesa tra le due sponde dell’Atlantico, sia stato gonfiato ad arte. L’oggetto del contendere non c’è.

Eppure, a indispettire Trump è stato anche il fatto che il collega francese abbia posto gli Stati Uniti tra i potenziali nemici, alla stregua di Cina e Russia. È una lettura credibile?

Le difficoltà del rapporto dell’Europa con gli Stati Uniti non sono certamente paragonabili a quelle che abbiamo con la Russia, o con la Cina. Certo, con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca il legame transatlantico ha subito tensioni tutt’altro che marginali. Il presidente americano non ha mai fatto mistero del proprio pensiero sull’integrazione europea. Ha messo in discussione molti dei elementi costitutivi storici della politica estera degli Stati Uniti, e soprattutto gli impegni presi dal suo predecessore. Sul tema del commercio internazionale si è dimostrato particolarmente assertivo. E ha sistematicamente rimesso in discussione, le regole alla base del multilateralismo. Che ci siano delle tensioni è naturale e comprensibile. Ma certamente queste non sono comparabili a quelle con Pechino e Mosca. Gli Stati Uniti, malgrado le difficoltà che stiamo sperimentando in questa congiuntura, restano il principale alleato dell’Europa.

L’impressione è che la partita si giochi sul concetto di autonomia strategica del Vecchio continente, che Parigi interpreta nel modo più radicale, come indipendenza dagli Usa. Quale è, secondo lei, l’interpretazione che l’Italia dovrebbe portare avanti?

Credo che ci sia un grosso equivoco dietro il concetto di autonomia strategica. Di per sé, sarebbe un risultato straordinario per l’Europa, ma avrebbe dei costi che, a mio avviso, non siamo in grado di sostenere in questa particolare congiuntura. Il partenariato con gli Stati Uniti resta essenziale. Per questo, è un errore utilizzare l’obiettivo dell’autonomia strategica europea per creare un solco con Washington. Certo, ciò non vuol dire che l’Europa non debba assumersi maggiori responsabilità. È indubbio che deve fare di più per proteggere i propri cittadini sotto il profilo della sicurezza, esterna e interna. Ciò va comunque coniugato, in modo compatibile, con il rapporto transatlantico, che resta per noi fondamentale nonostante le difficoltà di dialogo con il presidente Trump, il quale conserva un’agenda che su molti temi è in contrasto con quella europea.

Tra l’amministrazione Usa e l’attuale governo italiano è comunque emerso a più riprese un certo feeling. Possiamo sfruttarlo?

L’Italia ha tanti problemi interni da risolvere prima di porsi come ipotetica forza di mediazione. L’affinità che sembrerebbe esserci tra la presidenza americana e il nostro esecutivo potrebbe essere un fatto positivo. Ma dobbiamo essere consapevoli che l’agenda di Trump (così come quella di Putin) è molto chiara sull’Europa Mi auguro che le simpatie per Trump che sembrano caratterizzare l’attuale maggioranza di governo italiana non vengano utilizzata per mettere in difficoltà l’Unione europea.

Si riferisce alle prossime elezioni del Parlamento europeo?

Non solo. Tra le forze che sostengono l’esecutivo, ci sono sicuramente pulsioni che sembrano spingere verso una rimessa in discussione dei capisaldi del progetto europeo. Guarda caso, un attacco all’Unione europea coincide con le agende di Trump e Putin. Distanti su tanti aspetti, i due presidenti americano e russo convergono sull’obiettivo di indebolirla.

Intanto, l’Unione sembra procedere con decisione sul filone della Difesa comune. È il settore su cui rilanciare il progetto di integrazione?

È uno dei settori, ma non l’unico. A lungo assente dall’agenda europea, il tema della difesa ha visto una ripresa di iniziativa nel corso degli ultimi due anni. Una delle novità di rilievo è il Fondo europeo per la Difesa proposto dalla Commissione. È la prima volta che l’Ue mette a disposizione fondi del proprio bilancio per il sostegno a progetti di cooperazione transnazionale per la ricerca e lo sviluppo di capacità nel campo della difesa. Riuscire a rafforzare la base comune per un’industria europea della difesa e a sviluppare maggiori capacità al servizio della politica estera dell’Europa sarà uno degli elementi su cui si giocherà il futuro dell’Unione. Su questo e su altri aspetti si sono registrati progressi significativi, sempre ricordando che non si tratta di sostituire l’Alleanza Atlantica nel compito della difesa dei territori dei Paesi dell’Ue.

Ma esiste una politica estera dell’Europa?

Questo è il vero problema. A monte del ragionamento sulla difesa comune, il vero presupposto è che i 27 Paesi membri riescano a definire una percezione comune della minaccia, a identificare le aree di crisi nelle quali è necessario intervenire, ed infine a concordare la tipologia delle missioni comuni da dispiegare sul terreno con strumenti anche militari comuni. Se questo non avviene, lo strumento militare serve a poco. Ad ora, abbiamo potuto registrare su molti teatri la difficoltà a definire una linea comune su numerose arre di crisi. In Libia e in Siria, ad esempio, si è notata una clamorosa assenza dell’Europa. Così, oltre a lavorare per la creazione di uno strumento militare comune, si dovrebbe forse approfondire la capacità di definire ed attuare una autentica politica estera e di sicurezza comune.

Ha citato la Libia. Quale è il suo bilancio della conferenza di Palermo?

È il tipico esempio del bicchiere che può essere mezzo vuoto o mezzo pieno. Era obiettivamente molto difficile ottenere un risultato concreto e tangibile. Comunque l’aver potuto registrare a Palermo almeno una convergenza di principio su alcuni aspetti di un processo potrebbe essere considerato un risultato positivo. Lo è sicuramente il sostegno arrivato al piano del rappresentante speciale dell’Onu: una conferenza nazionale, auspicabilmente a gennaio; la riforma della costituzione; una riforma elettorale e poi le elezioni. Si tratta di un percorso su cui restano purtroppo ancora numerose incertezze, e lo dimostrano i più recenti scontri a Tripoli, nella zona dell’aeroporto. La stretta di mano tra Serraj e Haftar è un fatto positivo, ma all’atto pratico le divergenze rimangono. Dunque, la mia valutazione sulla conferenza è tutto compreso positiva, malgrado le incertezze che gravano sul processo. Meno positivo il fatto che alcuni alleati non abbiano garantito una presenza adeguata rispetto alle promesse.

A chi si riferisce?

Mi riferisco in particolare agli Stati Uniti. Dopo l’ipotesi di una Cabina di regia congiunta per la Libia, emersa nell’incontro tra il presidente del Consiglio e il presidente Trump a fine luglio, era legittimo aspettarsi una presenza americana più significativa. La verità è che per Washington la soluzione della crisi in Libia non sembra essere una priorità.

Tra le sfide all’Unione europea c’è anche la Brexit. Come legge i passi in avanti sull’accordo?

Spero che la Brexit sia una lezione per tutti, anche per quelli che ogni tanto vagheggiano ipotetiche uscite dell’Italia dall’Unione europea. Ciò che sta succedendo a Londra è sintomatico: tra i conservatori si registra una spaccatura drammatica sulle condizioni del recesso del Regno Unito dall’Ue. La soluzione individuata nel negoziato, portato avanti con coraggio da Theresa May, pare l’unica realisticamente possibile. Eppure, lo scenario del “no deal” è ancora probabile, se si pensa alle difficoltà che il governo di Londra avrà per far approvare l’accordo in Parlamento (a meno che non vengano in soccorso i laburisti). L’ipotesi di un mancato accordo sarebbe disastrosa per il Regno Unito e per noi. Basti pensare che la condizione dei cittadini europei nel Regno Unito non sarebbe più garantita da un accordo negoziato dall’Ue, ma sarebbe rimessa alle scelte unilaterali del governo britannico, che potrebbe rivedere le condizioni di permanenza, residenza e lavoro sulla base delle preoccupazioni prevalenti nel contesto politico del momento. A noi non resterebbe che la “retaliatation”: applicare le stesse condizioni ai cittadini britannici residenti nell’Unione sulla base del principio di reciprocità.

Come uscirne?

È interesse di tutti che l’accordo vada in porto e venga ratificato dal Parlamento britannico e dal Parlamento europeo entro la scadenza del marzo 2019. Anche perché la situazione dovrà essere chiarita prima che si vada a votare per il rinnovo del Parlamento europeo. Dobbiamo essere sicuri dello stato del Regno Unito quando si andrà a votare per il Parlamento europeo. Per quanto sia possibile posporre (attraverso il voto unanime del Consiglio europeo) la famosa scadenza dei due anni prevista dell’articolo 50 del Trattato sull’Ue, è necessario sapere per tempo se il Regno Unito britannici parteciperà o no alle elezioni. Più in generale, sono ottimista sulla possibilità di trovare un accordo. Ma mi auguro che la lezione di questo difficile negoziato sulla Brexit, che sta lacerando il sistema politico britannico, sia tenuta ben presente da chi ogni tanto minaccia una ipotetica quanto improbabile Italexit.

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