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Bettino Craxi e quella lezione politica da custodire ancora oggi

Di Gianni Pittella
craxi

A quasi vent’anni dalla scomparsa di Bettino Craxi, la cronaca dei successi politici e dei travagli giudiziari, la celebrazione e la damnatio, possono lasciare il posto ad un’analisi storica più obiettiva della parabola di uno dei leader italiani più rappresentativi del secondo Novecento.

Ne ragionavo in questi giorni, domandandomi se quei tratti possono oggi avere il sapore dell’attualità e il senso del futuro. La mia prima risposta l’ho trovata non solo nei grandi fatti di cui Craxi e il Paese furono protagonisti, ma nelle idee che egli intese segnare nelle fondamenta della costruzione di quei fatti.

Il Vangelo socialista, scritto insieme a Luciano Pellicani nell’agosto del 1978 iniziava ad abbozzare una visione della società senza la quale i socialisti non sarebbero mai usciti dal loro minoritarismo culturale ed elettorale. Fino a quel momento, i socialisti non solo non erano compiutamente né di lotta né di governo, ma erano altresì smarriti nella morsa della doppia subalternità al Pci e alla Dc.

Il Psi si era ridotto ad essere, sul piano ideologico, solo una variante del Pci più delicata di stomaco, oltre che molto meno compatta, meno finanziata e meno organizzata. E di conseguenza l’Italia era stata condannata ad essere l’unica democrazia occidentale impossibilitata all’alternanza, avendo una sinistra egemonizzata dai comunisti. Craxi sapeva che la svolta poteva arrivare solo se alla sua azione energica corrispondesse una rilettura del marxismo che ne seppellisse la statolatria comunista.

Fu questo il senso di quell’opera scritta con Pellicani e fu questo il senso dell’offensiva culturale della rivista Mondoperaio diretta da Federico Coen.

Come Bernstein nel 1899, Rosselli nel 1929, la Spd nel 1959 a Bad Godesberg, Craxi nel 1979 doveva dare una spallata al vecchio armamentario, e per darla davvero non bastava più dire che per i socialisti il comunismo era in fondo una buona idea realizzata male, ma che era proprio un’idea sbagliata, perché contraria alla libertà dell’uomo.

L’approdo dell’autonomia culturale che Craxi voleva per i socialisti consisteva nel socialismo liberale. L’individuo diventa così il soggetto principale dello sviluppo economico e civile. La lotta alla disuguaglianza e all’emancipazione richiedeva pertanto una battaglia riformista di modernizzazione del Paese in senso liberale.

Modernizzare significava ampliare la sfera della libertà individuale, diminuire i vincoli, gli automatismi, ritrarre lo Stato dal terreno non suo, congegnare una riforma dello Stato e intanto inaugurare una prassi politica improntata alla democrazia decidente.

Quanta attuale lezione nelle sue parole: “La democrazia deve vivere e governare. La democrazia governante è un’idea di vitalità della democrazia, sottratta agli immobilismi, le lentocrazie, e le paralisi di vario tipo che la condannano alla sclerosi ed alla decadenza. Io coltivo la speranza di un rigoroso rinnovamento della democrazia italiana”.

Fu nel segno di un’idea nuova della sinistra liberale, europea, mediterranea, atlantista critica, autonomista e risoluta che Craxi riuscì a spezzare, ereditando un partito sotto il dieci per cento e dilaniato dalle correnti, il consociativismo Dc-Pci e la democrazia bloccata italiana.

Le conseguenze concrete di questa svolta ideale sono note. Il risanamento economico, il prestigio del “made in Italy”, l’ingresso fra le cinque grandi potenze industriali del mondo, la riattualizzazione dei Patti Lateranensi, l’allargamento dell’Ue e l’affermazione del ruolo del socialismo mediterraneo. È strano, ma non paradossale, come oggi Craxi venga chiamato ad antesignano di un certo sovranismo. In realtà Craxi fu assertore della difesa dell’indipendenza nazionale dall’assolutismo dei poteri finanziari e da una certa idea di totale subalternità al patto atlantico. Questo tuttavia non si tradusse mai in antieuropeismo, in chiusure medievali di confini, in accenti suprematisti.

Si tradusse contemporaneamente nella difesa di Sigonella, nell’apertura al dialogo nel caso Moro, sull’amicizia italo-libica (su entrambe le questioni gli Usa avevano posizioni opposte) ma anche in un internazionalismo straordinario.

La visione mediterranea di Craxi accentuò le politiche filo arabe e lo fecero amico dei più importanti leader africani, a cominciare dalla Tunisia di Bourghiba e di poi di Ben Alì (impedendo per poche ore vi fosse un colpo di Stato di marca francese nella regione), lo resero promotore di un’alleanza straordinaria con i leader socialisti europei Felipe González e Mário Soares, e finanziatore occulto di alcuni dei partiti socialisti messi al bando dalle dittature dei rispettivi Paesi, e tra questi il Partito Socialista Operaio Spagnolo, il Movimento Socialista Panellenico ed il Partito Socialista Cileno di Salvador Allende, di cui Craxi fu grande amico personale. Questo suo senso dell’indipendenza nazionale e parimenti profondo internazionalismo sono un’altra grande lezione.

Le sue parole sulla globalizzazione sono profetiche: “La ‘globalizzazione’ non viene affrontata dall’Italia con la forza, la consapevolezza, l’autorità di una vera e grande nazione, ma piuttosto viene subìta in forma subalterna in un contesto di cui è sempre più difficile intravedere un avvenire, che non sia quello di un degrado continuo, di un impoverimento della società, di una sostanziale perdita di indipendenza”.

A questo monito Craxi avrebbe voluto rispondere con un protagonismo su scala internazionale del Paese, con la riforma delle grandi istituzioni mondiali, con una cooperazione allo sviluppo feconda, con una Unione europea più forte e coesa. Il suo lavoro da presidente del Consiglio europeo e di delegato delle Nazioni Unite sulla questione fame e sottosviluppo resta ancora oggi un riferimento.

Cambiamenti epocali tuttavia stavano per aggredire il Paese e Craxi non seppe accorgersene davvero. Mentre la sua idea di grande riforma costituzionale in direzione di una democrazia decidente finì per essere un inutile “abbaiare alla luna”, come lo definì Craxi stesso con amarezza, l’aspro gioco di collaborazione e conflitto con la Dc divenne il motore di un impiego degenerativo di risorse pubbliche con la relativa esplosione del debito e una questione morale che era innanzitutto politica perché nasceva dal fatto che la linea della governabilità perdeva ogni rapporto con la prospettiva dell’alternativa.

Il crollo del muro di Berlino avrebbe richiesto un cambio di paradigma radicale, un cambio di spartito che la direzione dell’epoca non seppe interpretare. L’invito agli italiani che chiedevano un segno di cambiamento a disertare le urne per il referendum che aboliva la preferenza multipla nelle elezioni fu il principio della fine.

La lezione politica di Bettino Craxi è più viva che mai, persino nei suoi limiti, nei suoi errori. Fu la lezione di uno statista, di un grande socialista, e i politici dell’oggi dovrebbero custodirla per provare a ritrovare le coordinate di un mondo in grande trasformazione.

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